Oggi il nostro rapporto con l’urbanità è estremamente
complesso, e la continua inurbazione registrata dalle demoscopie lo renderà
ancora più centrale di quanto non lo sia già.
Poiché la città costituisce la più grande rappresentazione
della quotidiana (e millenaria) antropizzazione del territorio. Nella città si
sommano e intrecciano infatti il risultato
dell’antropizzazione e l'immediata trasposizione simbolica della civiltà. Semplificando: gli edifici sono al
contempo oggetti concreti e rappresentazione di una volontà civile di controllo
del territorio.
Da qui nasce la principale complicazione, poiché la città ci
propone ogni giorno la schisi inevitabile tra la volontà del singolo e le
ragioni del collettivo. Nella città si mette in scena ogni giorno la
drammaturgia del rapporto tra pubblico e privato. Ma si badi bene: senza città
non ci sarebbe percezione diretta del pubblico, nelle campagne i confini dello
spazio privato sono più profondi e radicati rispetto a quanto accade in città,
a dispetto dell’apparente uniformità del paesaggio.
Il nostro rapporto con il territorio, al di là delle
indiscutibili ragioni economiche e sociali legate alla sopravvivenza, è un
rapporto intimamente conflittuale. Avvengono conflitti tra il pubblico e il
privato, tra i privati, tra azioni singole e interesse collettivo, tra
trasformazioni che coinvolgono la collettività e gli interessi privati, ma
anche tra l’azione antropizzante (con la propria impronta ecologica) e le
esigue capacità rigenerative del bios naturale che le sopporta e supporta.
Il
territorio (inteso geograficamente come risultante della prima con il secondo)
è l’archetipo nascosto della nostra auto rappresentazione a grande scala.
L’urbanistica è una disciplina recente (ha poco più di un
secolo), tappa obbligata dal transito da una civiltà economicamente agricola ad
una marcatamente industriale. Essa ha originariamente assunto come linee guida
l’insegnamento dell’impero più urbanizzante della storia: l’Impero Romano.
La centuriazione romana in alcune porzioni del territorio italiano è ancora visibile. |
La 'griglia' a New York (foto anni '30). |
La griglia diviene l'archetipo di ogni atto progettuale, nella visione di Superstudio. |
I
fondamentali di un progetto territoriale sono la democratica ripartizione della
popolazione (in termini di quantità di spazio e di accessibilità alle risorse)
e le reti infrastrutturali (per la circolazione delle merci e per il controllo
capillare del territorio da parte del potere centrale). Questi fondamentali
sono riscontrabili negli interventi di Haussmann a Parigi e in quelli di Cerdà
a Barcellona nella seconda metà del XIX secolo.
Il rapporto con la città storica e i suoi monumenti (e a ben
vedere lo stesso concetto di
monumento) sono un po’ più recenti. Nel XVIII secolo i monumenti erano
illuministicamente votati a dare rappresentazione all’autodeterminazione umana,
verso la fine del XIX secolo il monumento diviene documento storicizzato di un
passato. Questa visione si acuisce con le ricostruzioni del secondo dopoguerra:
occorre recuperare una radice storica per non soccombere di fronte alla enorme
responsabilità di ricostruire intere parti di città.
Lo stesso Mumford (uno dei più trasversali studiosi del
rapporto tra architettura e città) scriveva nel ’47 che vi era la necessità
culturale di fissare le linee guida di una Nuova Monumentalità. Quello che era
in gioco era infatti una sorta di patto urbano fondato sulla convivenza tra
individui differenti in un territorio ad elevata densità e meccanizzazione,
tenuto insieme solo da una capillare rete di spazi pubblici e dalla convinzione
che l’urbanità porti per il singolo maggiore benessere. E la guerra aveva
indubbiamente colpito nel cuore questo patto urbano.
Dalla fine degli anni ’60 gli studi urbani divennero
consapevoli che erano necessari strumenti più antropologici per leggere e
comprendere le città dal punto di vista progettuale. ‘L’Architettura della
Città’ e ‘La Città Frontale’ spinsero uno in direzione del dato memoriale di
fatti urbani e l’altro in quella di considerare la città come un’opera d’arte.
Dunque ai paradigmi economici e sociali si aggiunsero quelli derivanti
dall’antropologia culturale e dell’estetica.
Oggi la città è lo scenario principale in cui rappresentare
e rappresentarsi l’identità (collettiva e singola). Ne sono state esempio
(seppur degradante) le monumentalistiche review nell’estetica dei centri
commerciali che per circa 30 anni hanno recuperato dall’immaginario monumentale
e storicistico l’idea di come realizzare un pezzo di città per mimesi
culturale. Per l’antropologia culturale, infatti, non esiste luogo senza
memoria.
E gli antropologi che hanno visto le realizzazioni degli ultimi 30
anni sono solitamente d’accordo nel definire non luoghi questi tentativi mimetici.
D'altro canto anche il concetto di identità è
estremamente liquido, ovvero in
costante riflusso tra i paradigmi. Le più recenti ricerche di Baumann hanno
rilevato come il rapporto tra l’identità e il luogo di residenza siano sempre
meno di carattere mnemonico. La tendente dipendenza dei fondamentali
dell’esistenza (lavoro, welfare, economia) da capitali sempre più nomadici sta
corrodendo il concetto stesso di appartenenza territoriale, mettendo in luce
come essa sia un fenomeno dinamico e non un’ipostatica costante.
In altre
parole non si mette, oggi, in discussione un passato documentale, quanto la
possibilità stessa di delineare (e immaginare) il futuro.
Negli anni ’90 l’immaginario collettivo si dedicò alla
rappresentazione dell’amnesia come
stato di afflizione dell’individuo. La letteratura e il cinema ne indagarono
gli anfratti nascosti, mostrando come non fosse più possibile fondare
l’identità sulla memoria (Blade Runner
ne fu un eccellente anticipazione, affiancato da Memento, Matrix, Tokyo non ci vuole più bene…). Dal punto
di vista dell’urbanità potremmo dire che viviamo in una condizione per cui la
città non ci appartiene più in modo memoriale, ne siamo sempre ospiti e sempre
meno cittadini. Questo significa che le sovrastrutture (anche virtuali) che
regolano le informazioni sulla città devono essere sempre più accurate e
diffuse, ma funzionano in supplenza della nostra amnesia costante. Abbiamo
navigatori, smartphone e occhiali a realtà aumentata per collegarci ad una
realtà urbana nella quale non esiste memoria tangibile di ciò che la nostra
civiltà sta diventando.
E’ possibile immaginare un futuro senza memoria? E se
l’amnesia fosse l’unica strategia possibile per poter ricercare proprio il
futuro, come se l’eccesso di cultura e conoscenza fosse un ostacolo alla
realizzazione di un’identità collettiva votata ad un presente continuo, nel
quale agire creativamente e senza preoccupazione per fondare strutture di senso
e rappresentazioni collettive come solo la città storica è stata?
Senza dubbio la società ha oggi una rappresentazione
collettiva a costo zero (rispetto alla costruzione di architetture e città): il social network. In esso si riversano le nostre
memorie giornaliere (foto, appunti, saggi, musica, video) ma anche gran parte
della progettualità che ci contraddistingue come specie (videogiochi in rete
per costruire città immaginarie, come SimCity e correlati). Esso
costituisce anche uno strumento di crowding
indiscutibilmente potente: il social network aggrega intenzioni e potenzialità
per progetti provenienti dal basso, ovvero bottom-up.
Ciò che ancora manca (ma che l’attuale legislazione urbanistica sta mettendo in
campo) è di connettere questa collettivizzazione di intenti con la
progettazione territoriale, in modo che un intero territorio possa essere
espressione di un’identità collettiva di nuovo tipo, un’identità espressione di
singoli utenti che partecipano attivamente ad una rete di produzione di senso.
La smartcity è un neologismo che tenta di raccogliere questi
paradigmi in un modello di sviluppo urbano alternativo. La sua novità consiste a
mio avviso in:
-
Introdurre nuovi strumenti di trasformazione del
territorio, modificando le sovrastrutture intangibili piuttosto che intervenire
sulle strutture tangibili
-
Introdurre strumenti di collettivizzazione delle
decisioni
-
Ridurre al minimo l’impiego di territorio
-
Intervenire in modo interstiziale e nei luoghi
residui, istituendo una versione edulcorata di riciclaggio degli ‘scarti
territoriali’
-
Fissando i principali obbiettivi delle proprie
strategie per il futuro nel potenziamento della società urbana e nella
riduzione dei costi per le trasformazioni urbane
-
Sancendo l’identità territoriale come conditio sine qua non per il futuro
degli insediamenti urbani
Per queste ragioni, oltre a smart city, è stato introdotto anche il termine urban village, con chiaro riferimento al
villaggio globale di McLuhan. La soluzione di problemi globali si affronta in
modo locale, compiendo una rivoluzione che (letteralmente) ci riporta ad una
società radicata nel territorio, ma necessariamente molto più alfabetizzata dal
punto di vista informatico.
Superkilen, parco urbano a Copenhagen. |
L’esempio con cui vorrei concludere è la recente
realizzazione, a Copenhagen, del parco urbano di Superkilen, a cura degli
architetti BIG, dei paesaggisti di Topotek1 e degli artisti visivi di
Superflex.
La realtà multietnica del quartiere di Copenhagen è stata
rappresentata nella lunga striscia del parco urbano attraverso una
partecipazione gestita sui social network, nel quale era stato reso pubblico il
masterplan di progetto. Scrive Ingels (BIG): “potevamo disegnare un’area urbana
scegliendo il meglio del design danese più attuale e premiato. Invece abbiamo
deciso di raccogliere l’intelligenza locale e l’esperienza globale di 60
diverse nazionalità e culture in fatto di arredo urbano”.
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