(NOTE: soon I'll write an english version of this post)
La Biennale di Venezia curata da Chipperfield è un evento
anomalo nella spettacolarizzazione collettiva che ha coinvolto la disciplina
architettonica negli anni di esplosione delle immagini e degli immaginari anche
grazie ai new media e ai social network. Per anni i progettisti new blood hanno
diretto la disciplina a indagare e sperimentare il nuovo come tema unico e
dominante, rispondendo anche ad un impellente desiderio di visibilità (e
visibilio) da parte di una committenza molto ricca e culturalmente votata a
trasformare l’architettura in attrattiva economico-politica per il controllo
turistico e ideologico dell’immaginario.
Gli architetti, da parte loro, hanno assunto un atteggiamento disinteressato nei confronti dell'esistente, assumendo una prassi di rimozione metodologica atta a rivolgersi al nuovo come unico principio di indagine e sperimentazione formale. Tuttavia non deve essere confuso il principio guida della Biennale di Venezia con l'ansia innovativa delle Esposizioni Internazionali: la volontà di rappresentare e raccontare il tempo presente non può essere confusa con l'esposizione di un futuro possibile. Nonostante la ricerca architettonica abbia recentemente privilegiato un malcelato utopismo grazie agli strumenti forniti dalle tecniche (di rappresentazione e di realizzazione) non dobbiamo dimenticare che la nostra disciplina ha più di qualche millennio di esperienza sul campo (per quanto peraltro ci è dato di sapere, ma potrebbe essere anche un periodo più lungo): l'innovazione non può essere colta solo per il suo aspetto formale, ed è possibile che anche le strutture non trilitiche di Ghery e Hadid abbiano dei precursori nascosti o travolti dal susseguirsi delle ere planetarie).
Chipperfield è indubitabilmente colto, e il tema da lui
proposto è letteralmente rivoluzionario: è un ritorno alla partenza, dopo
lunghi decenni di cicliche linee di fuga dal contesto urbano e storicamente
consolidato. Di qui il common ground, la negazione forzata delle prospettive degli
–ismi di cui le archistar più colte hanno fatto il loro cavallo di battaglia
(tra i quali campeggia probabilmente il parametricismo delle ricerche algoritmiche della
sezione ARUM dello studio Zaha Hadid Architect). Non è un caso che ritornino in
auge architetti con un atteggiamento più radicalmente storico (non storicista
per stile, ma culturalmente attento a definire il nuovo attraverso altre
strategie differenti dalle ‘nuove forme’), architetti di lungo corso (come
Luigi Snozzi o Hans Kolhof) che hanno saputo ridurre la spettacolarizzazione
dell’architettura radicalizzando invece la lettura della città esistente.
Il new urbanism (che viene comunemente rappresentato nelle
review vernacolari di Krier) viene metabolizzato assieme alle pulsioni
moderniste, la Postmodernità è dichiaratamente superata ma non dimenticata nel
suo atteggiamento di ludica mixitè della memoria.
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Monumento al Modernismo di R. Burghardt. |
Infatti la 'chiave' di accesso
all’Arsenale è il Monumento al Modernismo per Berlino di Robert Burghardt (2009),
una dichiarazione di stasi poetica nelle forme dell’architettura, che ha
metabolizzato completamente le forme dell’International Style, riproposte come
monumento, contrariamente alla loro originaria pulsione sovranazionale e
anti-monumentale.
La città storica (di cui l’Italia è densa per quantità e
modelli d’impianto) è tuttavia un concetto che va esteso a tutte le città
esistenti, la storia è compressa al presente, con tutte le stratificazioni e
densità che ne derivano. Non si tratta di un contesto forzato (contro il quale
Koolhaas ha scritto nel suo Bigness di quasi 20 anni fa), ma di aprire gli
occhi di fronte ad una realtà dimenticata a favore di un immaginario aleatorio
e autoreferenziale. Le fotografie di Thomas Struth, a stretto contatto con il
Monumento di Burghardt, ci ricordano proprio questo mutato atteggiamento
proposto dalla lettura di Chipperfield: le periferie della vecchia città
storica sono diventate la nostra città storica, il nostro contesto culturale,
la città reale che propone una sfida per il futuro.
Poiché le strategie di lettura e sviluppo della città
esistente hanno grosse lacune, sono visioni parziali, spesso forzate dai
paradigmi culturali in voga, tutte essenzialmente estranee dal principio di
falsificazione che regola, invece, la scienza e l’economia. In altri termini
per le teorie urbanistiche vale un principio di generale equivalenza, non
esiste un riconosciuto principio di obsolescenza. Dopotutto (e qui sta l’errore
metodologico) le città sono sempre esistite da quando esiste l’architettura, e
il comune principio di sostanzialità le rende culturalmente e metodologicamente
immuni all’evoluzionismo dell’epistemologia popperiana.
Nella presentazione di Chipperfield sul sito della Biennale
di Venezia si può leggere infatti che:
(...) Contro ogni previsione, l’Italia rimane la patria spirituale dell’architettura. È qui che si può comprendere pienamente l’importanza dell’edificio non come spettacolo individuale, bensì come manifestazione di valori collettivi e scenario della vita quotidiana. La sensibilità e la percettività della gente derivano senza dubbio dal fatto di vivere a contatto con il più grande patrimonio di architettura e urbanistica esistente al mondo. Questo senso tangibile del contesto e della storia ci ricorda che il nostro mondo edificato è una testimonianza della continua evoluzione del linguaggio architettonico e uno strumento essenziale per la nostra comprensione del mondo che ci circonda.
Tali presupposti mi hanno ispirato a orientare questa Biennale verso tematiche riguardanti la continuità, il contesto e la memoria, verso influenze e aspettative condivise. Mi hanno portato a concentrarmi sull’apparente mancanza di intesa tra la professione e la società. (...)
L’Italia ha conosciuto una grande dualità nella storia delle
scienze architettoniche del secondo dopoguerra, da un lato i Radicals
fiorentini, votati all’utopia, e dall’altro le teorie sui fatti urbani che le
principali università formalizzavano tra gli anni ’60 e ’80. Per semplificare:
da un lato un futuro immaginario, dall’altro un passato idealizzato. L’errore
paradigmatico (ma forse non c’era alternativa di fronte alle urgenze della
ricostruzione nella sciagurata stagione del ‘boom’ italiano) è stato di
considerare la città tutta come un monumento artistico collettivo, nel quale l’invarianza
d’impianto, di tipologie e di carattere architettonico era vista come superiore
e incommensurabile all’azione umana sul territorio antropizzato.
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Prima edizione de 'L'architettura della città (1966)', riportato nel Padiglione Italia. |
Una rilettura
del noto Architettura della Città di Aldo Rossi (1966) mostrerà come questa
visione strutturalista abbia portato ad una sostanziale separazione tra il
valore del ‘centro storico’ e l’assenza di valore della ‘periferia’,
alimentando sul lungo periodo due atteggiamenti deleteri per la città e il suo
futuro: da un lato il ‘centro storico’ sarà sempre più oggetto di conservazione
museale (con una deviazione turistico-espositiva verso la city-consumption di
Morales), dall’altro la periferia diverrà (per opposizione duale) la patria del
non-luogo di Augè, nonostante i tentativi più recenti di salvarne l’efficacia
produttiva nel descrivere tali territori come città diffusa.
In tutto questo la validità delle teorie rossiane (e della
Scuola di Venezia, ora quasi del tutto scomparsa) non è del tutto superata. In esse riscopriamo
alcune linee-guida alla base della stessa Biennale ‘Common Ground’:
-
La città va letta come dato geografico
-
L’architettura è uno degli elementi che danno
forma all’azione umana sul territorio, ma non è il solo
-
La città è un manufatto collettivo e ‘nella storia’: il ‘tutto’ è più
importante delle sue ‘parti’
Le questioni metodologiche di analisi della città esistente
(tramite gli studi morfologici e tipologici) sono purtroppo obsolete, poiché le
trasformazioni che la città e la cultura urbana hanno subito ad oggi hanno
disarticolato il rapporto tra edifici e città (sia nel loro rapporto tra ‘parte’
e ‘tutto’, poiché non è chiaro cosa sia il ‘tutto’) e tra il carattere pubblico
degli edifici e l’immagine complessiva del contesto urbano.
A questo tema si rivolgono le due installazioni video di
Norman Foster e di Farshid Moussavi. Esse
pongono almeno due interrogativi:
-
Qual è il rapporto tra l’architettura e il
proprio contesto?
-
Qual è il rapporto tra l’architettura e il suo utente?
Moussavi dichiara esplicitamente (attraverso un montaggio
analogico tra architetture del passato e della contemporaneità) che sussistono
affezioni comuni (una sorta di sublimazione di tipo e carattere in un unico
dato sensorial-interpretativo) tra gli edifici, e che ogni nuovo edificio
inevitabilmente può esser fatto rientrare in questa sorta di tassonomia sinestetica.
Una volta poste le basi metodologiche e culturali a Common
Ground, Chipperfield può dedicarsi all’esposizione degli esempi che ricercano
questa faticosa via laterale, transitando silenziosamente tra i modelli di
Kolhof, gli schizzi di Campo Baeza, la ricostruzione della casa di Anupama
Kundoo, gli studi di ScanLab e il monumentale (e ironicamente sepolcrale)
tavolo dell’immaginario degli archistar curato da Valerio Olgiati. Solo Maas di
MVRDV ha inteso la ‘trappola per ego’ di Olgiati!
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Hans Kolhof, modelli di studio sul carattere delle facciate. |
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schizzi di studio di Campo Baeza. |
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il QR code rimanda ad una colonna sonora su YouTube, un'attualizzazione dello schizzo. |
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ricostruzione della casa dell'architetto indiano Anupama Kundoo, un workshop internazionale per la Biennale. |
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Tavolo sacro sull'immaginario delle archistar, di Valerio Olgiati. |
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Tavolo sacro sull'immaginario delle archistar, di Valerio Olgiati. |
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L'immaginario di Winy Maas. |
Le firme dell’architettura in mostra all’Arsenale hanno
mostrato (con differenti risultati) di aver compreso la sfida di Chipperfield:
mostrare consapevolezza civile e qualche risultato concreto.
In questo Sergison
Bates mi è sembrato il più consapevole, eludendo volutamente sia l’invenzione
che il vernacolare in una radicale anonimia architettonica, intensamente voluta
e ricercata. Dall’altro lato Copycat del nostro Cino Zucchi accetta di svelare
la rimozione di ogni archistar: l’immaginario collettivo porta inevitabilmente
alla copia.
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Opere civili di Sergison Bates (housing e servizi per la collettività). |
In questa coerenza concettuale mi permetto di rilevare due 'errori' (dovuti tuttavia ad una captatio benevolentiae che comprendo appieno):
da un lato l’esposizione dei lavori di ARUM di ZHA (per quanto piacevoli da
fotografare e seducenti) è concettualmente inutile, avrei trovato più
interessante e colto da parte di Hadid l’accettare il nuovo ordine (anche se un
po’ quaresimale) dell’architettura mondiale mostrando come le realizzazioni più
vecchie si siano contestualizzate col tempo (come il ‘Bar Hadid’ aperto nel
Landscape Formation One a Weil Am Rehin, con le vetrate rotte e i tamponamenti
provvisionali in legno); dall’altro (all’opposto) avrei preferito dedicare
spazio a Yona Friedman (forse il solo architetto realmente esperto di common ground) piuttosto che alla
celebrazione dell’autocostruzione (fasulla) nel bar di Urban Think Tank.
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Modelli di studio di ARUM/ZHA. |
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Urban Think-Tank |
Non
credo infatti che l’assenza di progettualità equivalga ad una progettualità
bottom-up, ma certamente il dibattito è aperto…
Ho apprezzato poi, all’Arsenale, i lavori sull’America de
urbanizzata, 13178 Moran Street da Detroit e Team Chicago City Works. Avendo
letto Apocalypse Town credo che gli Stati Uniti meritino questa
rappresentazione di freschezza ingenua per affrontare gli effetti urbani di una
crisi paradigmatica dei ‘suburbia’ e delle New Town, di lungo periodo (come l’installazione
dei Crimson al Padiglione Italia denuncia apertamente).
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13178 Moran Street (collettivo di Detroit). |
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Team Chicago City Works - le architetture della modernità per Chicago. |
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Team Chicago City Works - le proposte per un urban renewal ingenuamente e radicalmente utopico. |
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Team Chicago City Works - dettaglio del plastico. |
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una delle 'pale' dei Crimson contro la strategia urbanistica delle New Town (Padiglione Italia ai Giardini). |
Anche la retrospettiva dedicata a Olivetti e alla fortunata
(e mai più ripetuta) figura di un gigante dell’imprenditoria italiana e al
contempo direttore dell’Istituto Nazionale di Urbanistica è stata apprezzabile.
Purtroppo la storia economica e urbana dell’Italia non ha saputo farne tesoro.
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Sede dell'Olivetti a Pozzuoli (modello) - progetto di L. Cosenza (realizzato nel 1959) |
Al Padiglione Italia, ai Giardini, confesso di aver dedicato
poco tempo. Tuttavia ho trovato interessante il recupero dei maestri ‘nascosti’
dell’architettura, oltre alla spiegazione iniziale sull’abusivismo edilizio
italiano. Dopotutto un atteggiamento più esplicitamente ‘quaresimale’ è d’obbligo
per la patria mondiale del Cattolicesimo!
La pulsione teoretica della Columbia
sul Campo Marzio piranesiano per Roma e la sua rilettura operata da Eisenmann e
collaboratori mi è parsa come un afflato retorico che cerchi di sovrapporre
archeologicamente le visioni ‘deliranti’ dell’urbanismo new yorkese, analizzato
dal giovane Koolhaas negli anni Settanta, alle tematiche più silenti della grammatologia
iniziatica di Purini, mancando la forza ideologica di entrambe. Il pastiche
giovanilista, la democratizzazione attraverso la griglia formalista, il
tentativo di affidare agli edifici il ruolo di attori nel campo di battaglia
dell’urbanità è sembrato inconsistente di fronte alla drammatizzazione del
ruolo dell’architettura nella contemporaneità.
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'Journey to a Common Ground'. Breve diagramma storico secondo il gruppo della Columbia. |
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Studi sul Campo Marzio (Padiglione Italia ai Giardini). |
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Studi sul Campo Marzio. |
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Studio sul Campo Marzio (P. Eisenmann). |
Molto più sensato il rinnovato
legame ai dettagli espresso da Toshiko Mori e dalle fotografie della Chemollo,
oltre alla dimostrazione ironica dell’inconsistenza dell’ideologia della
smartcity espressa nell’animazione di MVRDV e da The Why Factory. Confesso che
ho apprezzato anche la rappresentazione delle esperienze milanesi negli anni ’60
e ’70 nella realizzazione di edifici in linea, gli schizzi di studio, lo sforzo
atto a portare nell’edilizia comune quell’afflato contemporaneista, riconoscendo, ante litteram, il ruolo pubblico
del prospetto (quello che Zaera Polo definisce oggi l’envelope, includendo
anche gli apparati impiantistici di controllo del clima interno).
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Studi e realizzazioni sulle facciate degli edifici in linea a Milano negli anni '60-'70. |
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Studi e realizzazioni sulle facciate degli edifici in linea a Milano negli anni '60-'70. |
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Studi e realizzazioni sulle facciate degli edifici in linea a Milano negli anni '60-'70. |
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