Quello che vi racconto qui di seguito è solo una traccia minima, per chi si pone la domanda: come siamo arrivati fin qui dalle sperimentazioni ludiche della postmodernità? Potreste anche domandarvi, con meno enfasi, perchè Aldo Rossi progettava caffettiere e Zaha Hadid disegna cucine?
Zaha Hadid, cucina 'Z Island' (2006) |
La mia risposta potrebbe essere più o meno la seguente: la caffettiera di Rossi ha un intimo legame con la memoria/immaginario del soggetto, sembra comunque una caffettiera e il suo principio di funzionamento è tradizionale; la cucina di Hadid impone, al contrario, un utente esperto, alfabetizzato tecnologicamente, pronto a immaginare un altro modo di abitare e cucinare rispetto alla tradizione. Due atteggiamenti opposti, due strategie di design temporalmente e culturalmente distanti. E sono passati poco più di vent'anni tra i due progetti.
Esiste quindi un missing link, una piccola nicchia nella ricerca architettonica nel decennio che va dalla fine degli anni '80 alla fine degli anni '90, che è stata definita transarchitettura. Essa rappresenta il passaggio (estremamente effimero) tra il mondo e il modo postmoderno e quello attuale.
Ne ha recato traccia un bel numero di Domus del gennaio del 2000 che ha messo in ordine i risultati più rappresentativi della produzione architettonica di quel decennio. Si trattava principalmente di rendering che usavano la virtualità per immaginare nuovi mondi e nuovi modi, senza che esistessero le tecnologie costruttive per dar corso alla loro realizzazione.
Ma partiamo dal principio: cosa indica il neologismo transarchitettura? Si tratta di un piccolo paradosso, in effetti, poiché unisce il prefisso trans- (in transito, senza punti di equilibrio statico) con la 'vecchia' architettura (che invece indica la fondazione costruttiva e logica del mondo dell'uomo). In altre parole alla ricerca architettonica (per breve tempo) venne affidato il compito di ricostruire un immaginario collettivo, in continua evoluzione, senza più alcun punto fisso o principio regolatore stabilito a priori.
Daniel Libeskind, Micromegas (1979) |
P. Eisenman, House X |
J. Hejduck, Wall House |
altri (come John Hejduk) tentavano di attingere ad una sorta di lato oscuro dell'immaginario;
R. Koolhaas, Exodus |
altri ancora (come il giovane Rem Koolhaas) recuperavano le visioni utopiche degli architetti Radicali (di cui gli italiani Superstudio erano i più quotati) per sovvertirle in a-topie estranee che mostravano (anch'esse) una società senza meta.
La ragione (filosofica e culturale) di questa deriva era la maturata consapevolezza che le parole avevano perso (quasi) ogni contatto con il mondo.
Occorreva dunque tornare ai segni (dunque ricostruire la base stessa di ogni linguaggio) nel tentativo di renderli autonomi e potenzialmente in grado di potersi nuovamente costituire in linguaggio.
Il disegno di Libeskind (1979) è una buona rappresentazione di queste elaborazioni, e i lavori dei primi anni '80 di Zaha Hadid riflettono la stessa sperimentazione. L'insieme di questa ricerca sul segno è stata definita Decostruttivismo, e copre, sulla scia delle riflessioni di Derrida, il decennio tra la fine degli anni '70 e la fine degli anni '80.
Il segno, però, non si comporta come il frammento. Mentre questo reca traccia del proprio intero (come in un puzzle) quello, una volta reso autonomo, non intende sottomettersi ad una composizione che ricostruisca l'intero. Tutta la Postmodernità aveva rielaborato i frammenti, utilizzando il loro potenziale mnemonico per creare montaggi pop. L'immaginario collettivo, posto di fronte ai frammenti, viene preso da una vertigine mnemonica di rimandi. Per tale ragione la Postmodernità è stata forse il momento culturale in cui ogni cosa era potenzialmente monumentale. Ma, come dicevamo, il segno si libera di questa potenzialità latente, svincolandosi da ogni rimando storicistico.
L'autonomia del segno diviene autoreferenzialità, esso è regola sufficiente a sè, non necessita (più) di alcuna composizione. Gli architetti avevano frantumato il corpus (disciplinare) della composizione architettonica e non avevano idea di come rimetterlo insieme (o se fosse davvero una buona idea farlo).
L'autoreferenzialità coinvolse anche il soggetto umano. All'inizio degli anni '80 lo scrittore William Gibson coniò il neologismo cyberspace per definire uno stato di radicale sospensione del rapporto sensoriale con il mondo, un solipsismo reso possibile da nuove potenti interfacce. Gibson elaborò questa visione vedendo come i ragazzini perdevano il senso dello spazio e del tempo giocando ai videogame Atari e ascoltando canzoni dai Walkman della Sony.
Divenne chiaro, per tutti coloro che intendevano ricostruire un immaginario dopo la morte Postmoderna, che ogni possibile rielaborazione del futuro (da parte della ricerca, ma anche degli scrittori di fantascienza, degli artisti, degli architetti...) doveva passare per i seguenti punti:
1.elaborare una nuova strategia per riunire i segni al di là del linguaggio umano
2.elaborare un nuovo tipo di soggetto
3.elaborare un nuovo rapporto con le interfacce nascenti
4.stimolare un senso di novità e alterità stratificata, senza auspicare un ritorno all'origine o un fallout nucleare.
Le interfacce furono di aiuto straordinario nell'affrontare contemporaneamente gli altri tre punti nodali. L'informatizzazione era in grado di riunire i segni in un unico codice binario, permettendo così l'applicazione di algoritmi (non solo formali) per ottenere risultati affascinanti. Il nuovo linguaggio diviene paradigma, trasponendo l'autonomia del segno nell'autonomia del mezzo informatico. Il cyberspace raccoglie ogni autoreferenzialità, riunisce i segni, si prende carico della comunicazione, lasciando che l'uomo possa utilizzare il proprio linguaggio solo per i propri simili, mentre la creatività esplode esponenzialmente all'interno dell'interfaccia. Essa, infatti, non è solo strumento di realizzazione ma anche strumento di lettura e visualizzazione del prodotto.
Stephen Perrella, studi sulla Mobius House (1996) |
La transarchitettura ingloba questa vertigine culturale, le viene lasciato campo libero poiché si muove all'interno di una dimensione virtuale apparentemente innocua per il mondo. La transarchitettura rappresenta dunque una sperimentazione in vitro, in cui non è determinante valutare stilemi o costi o realizzabilità, poiché sono categorie valide solo per l'architettura realizzata. Al contrario tutti i saggi dei transarchitetti contengono osservazioni di ampio respiro sui nuovi utenti dell'architettura e sulle nuove strategie per abitare le città, con molta più connettività, molta più aleatorietà, molta meno stabilità territoriale. E l'architettura diviene rappresentazione di questo pensiero/visione, nell'improvvido compito di ristabilire una rotta evolutiva, con il risultato di divenire fantasma, proiezione di fotoni, senza più materia.
Marcos Novak |
La transarchitettura si è conclusa nel momento in cui l'immaginario ha raggiunto un abbrivio tale da potersi muovere al di fuori del pastiche postmoderno. Con le sue prime realizzazioni la transarchitettura prese corpo, uscì dal computer e si calò nuovamente nel mondo. Dobbiamo all'Olanda (patria di Rem Koolhass, ma anche di Nio, Spuybroek, Oosterhuis, West 8, MVRDV) il riconoscimento di aver dato spazio per prima a questi oggetti alieni, mostrando al mondo come l'architettura poteva comunicare all'uomo in un modo diverso, raramente sperimentato prima.
NOX (Spuybroek/Nio), Padiglione dell'Acqua (Olanda, 1997) |
Da quando la transarchitettura si è concretizzata sul pianeta, l'architettura preferisce comunicare al soggetto in modo emozionale, non più linguistico. Se il linguaggio basa la sua comprensibilità intellettiva su regole universali (nello spazio e nel tempo), l'emozione è simultanea, interazione pura, e, finalmente, davvero universale. La virtualità ha lasciato il posto alla realtà aumentata, in cui si sovrappone il simulacro al reale. E ancora una volta, permettetemelo, il caro Gibson ci aveva preceduti tutti, con il suo Luce Virtuale.
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