(versione italiana - english version follows)
Le tecnologie hanno una straordinaria potenza ricombinante, in termini culturali. Spesso infatti creano connessioni e tangenze tra trend culturali paralleli. Per questa ragione ci ritroviamo in una zona multicolore e turbolenta, in cui alle contaminazioni inclusive sperimentate nella tarda-Postmodernità si sono sostituite ricombinazioni esplosive. La spinta innovativa di questi ibridi culturali è purtroppo spesso minata dalla rapidità e dalla diffusione mediatica di cui godono grazie alla Rete, per cui la cultura non ha tempo di metabolizzarne le prospettive, consumandone le potenzialità come semplici prodotti.
Le tecnologie hanno una straordinaria potenza ricombinante, in termini culturali. Spesso infatti creano connessioni e tangenze tra trend culturali paralleli. Per questa ragione ci ritroviamo in una zona multicolore e turbolenta, in cui alle contaminazioni inclusive sperimentate nella tarda-Postmodernità si sono sostituite ricombinazioni esplosive. La spinta innovativa di questi ibridi culturali è purtroppo spesso minata dalla rapidità e dalla diffusione mediatica di cui godono grazie alla Rete, per cui la cultura non ha tempo di metabolizzarne le prospettive, consumandone le potenzialità come semplici prodotti.
Per queste ragioni l’arte, nel confronto con gli apparati
che la tecnologia propone (e impone) al panorama mondiale, tende a mutuare le
potenzialità connettive, al contempo, tuttavia, deviandone le finalità
funzionali verso orizzonti imprevedibili, spesso ludici. Nel confronto con i
paradigmi molecolari della tecnologia, l’arte concede ancora spazio all’inutilità,
grazie alla quale la creatività torna ad essere ancella del pensiero e dello
spirito, piuttosto che essere al servizio dell’industrializzazione del prodotto
e del marketing. L’aspetto ludico deve però essere inteso in modo quasi
matematico, ovvero caratterizzato da regole interne, collaborazione e
interazione, finalità particolari, atteggiamento strategico, filosofia meta
progettuale, strumenti di problem-solving di fronte all’imprevedibilità,
sensibilità alle condizioni al contorno. Il gioco, il caso e il caos sono
ulteriori paradigmi molecolari in grado di operare in modo non-lineare, in un
orizzonte di complessità variabile.
Arte e tecnologia hanno idealtipi radicati nella storia
della cultura occidentale. La mia opinione in merito, mutuata dalle riflessioni
condotte alla Facoltà delle Arti di Venezia con il professor Masiero, è che l’arte sia originariamente una risposta
evolutiva dell’uomo nei confronti della temporalità. Quando l’intelligenza
umana comprese che il tempo antropologico si distingueva in passato, presente e
futuro e che da questo dipendeva la possibilità stessa della sopravvivenza
(cacciare ieri, conservare il cibo oggi, mangiarlo domani), allora si
svilupparono le capacità artigianali (per costruire strumenti, come il vaso per
raccogliere cibo) e la necessità di segnare la temporalità mediante rappresentazioni
rupestri, che fissavano la differenziazione tra uomo e natura. L’artigianato mantiene
attraverso le epoche questo rapporto originario con la natura, consapevole del
proprio ruolo di interfaccia tra due sistemi che non possono essere separati completamente
e che hanno (anche per l’arte) pari valore. Nell’arte il referente principale è
quindi la corporeità e la sua capacità sinestetica di sperimentare il mondo,
in modo passivo e attivo.
La tecnologia invece non ha mantenuto nel proprio DNA la
matrice ontologica dell’arte e dell’artigianato. Le sue finalità non sono
legate necessariamente alla sopravvivenza, quanto piuttosto all’accordo tra
produzione e riproduzione. La dimostrazione di questa affermazione è che, con
il potenziarsi della capacità di rappresentazione del mondo grazie alle
tecnologie informatiche, la tecnologia si sta sempre più concentrando sulla
capacità di elaborare l’immateriale, divenendo sempre più un servizio e sempre
meno uno strumento. Per questo credo che l’idealtipo della tecnologia sia l’artificializzazione
paradigmatica del mondo, e il suo strumento principale sia l’immagine. La
rivoluzione industriale e la fotografia si sviluppano quasi nello stesso
periodo.
Naturalmente, nel confronto tra arte e tecnologia, soggetto
e oggetto sono sottoposti a continue vibrazioni concettuali, come stelle di un
sistema binario: interdipendenza e biunivocità caratterizzano i loro rapporti
culturali, spesso separandoli completamente dalla matrice naturale di fondo.
Corpo e immagini si rimescolano, creano avatar e simulacri, la realtà viene
moltiplicata e, con essa, il soggetto diviene moltitudine. Il medesimo
soggetto, nella network society, ha molteplici account, identità multiple,
memoria condivisa, fatica ad essere territorializzato. Lo stesso design impone
al corpo nuove identità, spesso coinvolgendolo con il comfort, dotandolo di
apparati ausiliari, connettività illimitata ma monitorata.
Questa ibridazione è un processo che non è tuttavia legato
al livello tecnologico raggiunto. Il rapporto biunivoco tra uomo e strumento
tecnologico ha sempre coinvolto entrambi in una evoluzione reciproca. In questo
l’arte ha costituito un elemento terzo, capace di riequilibrare un gioco a due,
attraverso l’assenza di finalità, usando di volta in volta simboli, metafore,
ironia, narrazioni, de contestualizzazioni. L’arte è forse l’interfaccia che,
nella storia della cultura occidentale, non ha mai preteso di raggiungere uno
status autonomo e assoluto, perché ha memoria genetica della sacralità dell’esistenza,
e quando rappresenta non mira alla sostituzione del rappresentato.
In questo l’immagine sembra aver perso memoria della propria
origine. Ci ricorda Debray che l’imago era, nella cultura latina, il calco di
cera del viso dei ricchi patrizi defunti, il cui scopo era di rappresentare
memorialmente un volto, edulcorando così il rapporto con la morte. Nella
fotografia c’è ancora traccia di questo rapporto con il nulla, ma si è tradotto
in una assenza: ogni fotografia infatti ha un bordo che è di fatto un’interfaccia
con ciò che non può esser visto, in questo risiede la sua straordinaria
drammaticità e la ragione per cui ravvisiamo una matrice artistica anche nella
fotografia. Inoltre la fotografia ha anche una densità interna, nella quale
avviene il nascondimento (ricordiamo tutti Blow Up di Antonioni e Blade Runner
di Scott). Purtroppo l’estemporaneità e la diffusione della fotografia digitale
ha di fatto corrotto il rapporto tra rappresentazione e rappresentato,
concentrandosi piuttosto sulla traccia memoriale istantanea e sulla
comunicazione (una foto vale più di mille parole). E’ morta la Polaroid, ma
Instagram è un suo sostituto molto più potente!
Anche la corporeità ha conosciuto un progressivo processo di
smaterializzazione concettuale. Quando Deleuze, nel decennio tra la fine dei ’60
e la fine dei ’70, elaborava il concetto di ‘corpo senz’organi’, rileggendo
Liebniz e la sua monadologia, tentava di strappare la corporeità dal suo ruolo
di componente nel meccanismo capitalistico/riproduttivo/significante del mondo,
rivendicandone invece la capacità fondativa di nuove filosofie non
territoriali. Il corpo deleuziano era forse un superamento della separazione (platonica
e cartesiana) tra corpo e anima, un corpo laico che poteva accentrare
(nuovamente) su di sé il progetto per il mondo futuro. Purtroppo la
Postmodernità ha edulcorato il corpo deleuziano, trasformandolo in
rappresentazione senza carne. Ma nello stesso periodo la body art ha tracciato
un sentiero alternativo, per quanto impervio e angusto. Ancora una volta l’arte
fungeva da memoriale della nostra condizione umana, con tutta la crudezza che l’esposizione
mediatica crescente imponeva. L’arte, sulla scorta di Artaud, si fece teatrale,
ipertrofica, non confortevole allo sguardo. Le immagini di Orlan, Stelarc e
Antunez Roca (quelli che ricordo meglio ora) erano (e sono ancora) disgustose,
ovvero contrarie al gusto condiviso. Nelle loro opere l’apparato tecnologico
veniva concettualmente affrontato a viso aperto, in uno scontro (letteralmente)
all’ultimo sangue, la cui vittoria era rappresentata dall’aver prodotto un
corpo iperumano, sovraesposto, planetario, connesso e potenziato per un futuro
a venire, in una parola: POLITICO.
Oggi Artaud non può avere la stessa capacità dirompente di
trent’anni fa. Il nostro sguardo affaticato è saturo di cadaveri, di sangue e
di carne. Il corpo politico globalizzato (e le metafore post-human di certa
Body Art) ha segnato il passo alla mente globale, connessa a banda larga. Le
nostre identità (e la loro rappresentazione nei social network) si stanno
amplificando, ipertrofiche e spesso vuote, e diventerebbero una sola, se non
fosse iniziata, da qualche anno, una contro tendenza low-tech, che opera per
sottrazione e per hacking, in modo ludico (e quindi, per certi versi
imprevedibile). Per esser chiaro: low-tech è un atteggiamento, per il quale l’idea
precede la tecnologia che la rende efficace. In tal senso la spinta non è
diretta al raggiungimento dello strumento più avanzato, ma alla realizzazione
di un’idea. L’arte scopre una nuova dimensione domestica, ricomponendosi dopo
le ansie di ipertrofia descritte più sopra. Rimane certamente l’atteggiamento
performativo, ma è più user friendly, più morbido, non più mirato allo shock ma
all’empatia e all’emozione. La connettività ha saturato il pianeta,
frammentando tempo e spazio in un mezzo denso, nel quale siamo vicini, ma senza
poterci toccare.
Per queste ragioni l’opera TOUCHY dell’artista Eric Siu risulta
così contemporanea. Il performer e artista residente a Tokyo ha trasformato se
stesso in una fotocamera umana, creando un casco che richiama per forma e
colori l’idealtipo della macchina fotografica analogica. Il principio di
funzionamento è semplice: un sensore rileva se la pelle di Siu viene toccata, e
questo apre i due diaframmi che occludono lo sguardo dell’artista. Un tocco
prolungato a 10 secondi attiva lo scatto, e la foto digitale viene visualizzata
sullo schermo localizzato sulla nuca.
Nel corso della performance Siu cammina, cieco, tra la moltitudine di Tokyo, toccando la città (forse una delle città più visuali del pianeta), senza poterla vedere o misurare, ma percependola empaticamente e sinesteticamente. Ci ricorda le misurazioni urbane della prima Orlan, ma anche le sospensioni del primo Stelarc, eppure lo scontro tragico tra corporeità diviene apertura, cura e disponibilità verso il disumano e l’artificiale dell’ambiente urbano contemporaneo. La lentezza dei movimenti dell’artista-performer richiama gli sguardi della moltitudine, pone interrogativi, e allo stesso tempo spinge ad altrettanta empatia e amorevolezza. Siu è indifeso, quasi caricaturale con il suo farfallino al collo, con mani che si muovono lentamente per accarezzare la città come fosse un animale feroce perché spaventato. E in questo atteggiamento si crea la magia di uno straordinario cortocircuito: la moltitudine, essendo parte di quell’ambiente urbano, si sente empaticamente toccata per trasposizione. La città è il vero e gigantesco corpo della moltitudine planetaria, ed ha bisogno di sensibilità e amore. Attraverso questo cortocircuito la moltitudine muta, diviene un insieme di corpi e di identità: una passante si ferma e decide di toccare a sua volta Siu.
E qui avviene la seconda magia: gli occhi dell’artista si ‘aprono’, sorride disponibile. La human-camera ha un’anima, sfida l’intelligenza artificiale delle interfacce user friendly più avanzate degli attuali iOS per dimostrare cosa ci rende ancora umani. La cecità che Siu si impone riconduce l’immagine al suo rapporto con il nulla e la morte, la rende, per un istante e con ironia performativa, nuovamente sacrale, ancorandola concettualmente all’apparato sensoriale del corpo (poiché il senso del tatto, non la vista, è il nostro senso più sviluppato e potente).
(english version)
TOUCHY, courtesy of Eric Siu. |
Nel corso della performance Siu cammina, cieco, tra la moltitudine di Tokyo, toccando la città (forse una delle città più visuali del pianeta), senza poterla vedere o misurare, ma percependola empaticamente e sinesteticamente. Ci ricorda le misurazioni urbane della prima Orlan, ma anche le sospensioni del primo Stelarc, eppure lo scontro tragico tra corporeità diviene apertura, cura e disponibilità verso il disumano e l’artificiale dell’ambiente urbano contemporaneo. La lentezza dei movimenti dell’artista-performer richiama gli sguardi della moltitudine, pone interrogativi, e allo stesso tempo spinge ad altrettanta empatia e amorevolezza. Siu è indifeso, quasi caricaturale con il suo farfallino al collo, con mani che si muovono lentamente per accarezzare la città come fosse un animale feroce perché spaventato. E in questo atteggiamento si crea la magia di uno straordinario cortocircuito: la moltitudine, essendo parte di quell’ambiente urbano, si sente empaticamente toccata per trasposizione. La città è il vero e gigantesco corpo della moltitudine planetaria, ed ha bisogno di sensibilità e amore. Attraverso questo cortocircuito la moltitudine muta, diviene un insieme di corpi e di identità: una passante si ferma e decide di toccare a sua volta Siu.
TOUCHY, courtesy of Eric Siu. |
E qui avviene la seconda magia: gli occhi dell’artista si ‘aprono’, sorride disponibile. La human-camera ha un’anima, sfida l’intelligenza artificiale delle interfacce user friendly più avanzate degli attuali iOS per dimostrare cosa ci rende ancora umani. La cecità che Siu si impone riconduce l’immagine al suo rapporto con il nulla e la morte, la rende, per un istante e con ironia performativa, nuovamente sacrale, ancorandola concettualmente all’apparato sensoriale del corpo (poiché il senso del tatto, non la vista, è il nostro senso più sviluppato e potente).
(english version)
Today technologies
have an extraordinary recombinant power. In cultural terms, they often
create connections between parallel cultural trends. For this reason, now we
find ourselves in a colorful and turbulent zone, in which explosive recombinations
have replaced the late-Postmodern inclusive contaminations we experienced in the ‘90’s. The
innovation coming from these cultural hybrids is unfortunately often undermined
by the speed and media coverage they enjoy, thanks to the Internet, so the
culture has no time to metabolize the prospects, consuming their potential as
mere commodities.
For these
reasons and in comparison with the systems offered (and required) by modern
technology to the world scene, Art tends to borrow the connective potential, at
the same time, however, diverting the technical and functional purposes towards
unpredictable horizons, often playful. In comparison with the paradigms of
molecular technology, Art still gives space to the useless, which permits the
creativity to be newly the handmaiden of thought and spirit, rather than to
serve the industrialization of the product and the marketing. The playful
aspect, however, must be understood in an almost mathematical way, characterized
by internal rules, collaboration and interaction, special purpose, strategic
attitude, meta-design philosophy, problem-solving tools in front of
unpredictability, sensitivity to the boundary conditions. The game, the
case and the chaos are more molecular paradigms able to operate in a non-linear
way, in a horizon of varying complexity.
Art and
technology have both ideal types, deeply rooted in the history of Western
culture. My opinion on the matter, borrowed from the discussions held at
the Faculty of Arts of Venice with Professor Roberto Masiero, is that Art is
originally an evolutionary response of man in relation to temporality. When
human intelligence understood that the anthropological time was differed in past,
present and future, and that this depended on the very possibility of survival
(hunting yesterday, store food today, eat tomorrow), then he developed the
craft skills (to build tools, such as the vessel for collecting food). At the
same time he felt the need to mark temporality through ‘rock representations’, painting
the differentiation between him (the ‘first’ man) and nature. Handicraft held
through the ages this original relationship with nature, conscious of its role
as an interface between the two non-completely-separated systems (i.e. man and
nature) which have (for the Art) equal value. In Art the main contact is the
corporeality and its synaesthetic ability in experiencing the world, both in a
passive and active way.
The
technology, however, has not kept in its DNA the ontological matrix, as art and
crafts did. Its purposes are not necessarily linked to survival, but
rather to the agreement between production and re-production. The proof of
this statement is that, with the gear up capacity to represent the world (thanks
to the I.T.), the technology is increasingly focusing on the ability to develop
the immaterial, becoming, through the years, a service more than a tool (think
about Cloud Computing, for example). So I think that the ideal type of
technology is the paradigmatic artificiality of the world, and that its main
instrument is the image. The industrial revolution and the photography developed
about the same time.
Of course, in
the comparison between art and technology, subject and object deal with a continuous
conceptual vibration, like stars in a binary system: interdependence characterizes
their cultural relations, often separating completely from the natural matrix in
the background. Body and images are mixed, create avatars and
simulacra, the reality is multiplied and, with it, the subject becomes the
multitude. The same
subject, in the network society, has multiple accounts, multiple identities,
shared memory, hard to be regionalised. Also the industrial design forces the
body towards new identities, often involving it with comfort, providing it with
auxiliary equipment, unlimited (but monitored) connectivity.
This
hybridization is a process which is not yet linked to the technological level we
reached. The two-way relationship between ‘man’ and ‘instruments’ has
always involved both in a mutual evolution. In this relationship, art has
been a third element, able to balance a game for two, through the absence of
purpose, using, from time to time, symbols, metaphors, irony, stories, de-contextualization. Art
is perhaps that interface in the history of Western culture, which has never
claimed to achieve an autonomous and absolute status, because it has genetic
memory of the sacredness of life. Art uses representation as an empowering of
reality, not just to replace it.
On the contrary,
image seems to have lost the memory of its origin. Debray reminds us that
the ‘imago’ was, in the Latin culture, the cast (made of wax) of the face of
the rich patricians deceased, whose purpose was to represent a face like a
memorial, softening the relationship with death. In photography there is
still some signs of this relationship with the ‘void’, but it resulted in an
absence: in fact each picture has a border that is actually an interface with
what can not be seen. In this fact lies its extraordinary dramatic, and this is
the reason why we recognize photography as an Art. In addition, photography
also has a internal density, which is the hidden (remember all of Antonioni's
Blow Up and Scott's Blade Runner). Unfortunately the impromptu and
dissemination of digital photography has actually corrupted the relationship
between representation and represented, focusing instead on the memorial snapshot
and on the instant communication (a picture is worth a thousand words).
Polaroid has died, but Instagram is a substitute much more powerful!
Although
the corporeality has undergone a gradual process of conceptual dematerialisation. When
Deleuze, in the decade between the end of the '60s and the late '70s,
elaborated the concept of 'body without organs', reading Liebniz and his Monadology
and trying to tear corporeality from its role as a component in the capitalist/reproductive/signifing
mechanism, claiming instead its ability of founding new non-territorial
philosophies. The Deleuzian body (the b.w.o.) was perhaps a overcoming of
the (Platonic and Cartesian) separation between body and soul, a secular body
that could centralize (again) on itself the cultural project for the future (new)
world. Unfortunately, Postmodernity has sweetened the b.w.o., turning it
into representation without flesh. But at the same time the body-Art has
traced an alternative path, as steep and narrow. Once again, the Art
served as a memorial of our human condition, with all the harshness that the
increasing media exposure required. Art, on the basis of Artaud, became
theatrical, hypertrophic, not comfortable to the eye. The images of Orlan,
Stelarc and Antunez Roca (the ones that I remember better now) were (and still
are) ‘disgusting’, meaning the contrary to the ‘shared taste’. In their
works the technological apparatus was conceptually discussed openly, in a fight
(literally) to the death, whose victory was represented from having produced a hyperhuman
body, overexposed, global, connected and empowered for the future to come. In a
word: POLITICAL.
Today
Artaud’s works can not have the same disruptive
capacity than thirty years ago. Our eyes look tired and saturated with dead
bodies, blood and flesh. The politic globalized body (and metaphors of
certain post-human Body Art) disappeared, lost, and the global mind appeared,
connected to broadband. Our identities (and their representation in social
networks) are amplifyed, hypertrophic and often empty, and become just one, if a
low-tech counter-trend not started, a few years ago. It operates by subtraction
and hacking, in a fun way (and to some extent also unpredictable). To be
clear: low-tech is an attitude, for which the idea precedes the technology that
makes it effective. In this sense, the path is not directed to the
achievement of the most advanced technology, but to the realization of an idea. The
Art discovers a new homely dimension, composing after the anxieties of
hypertrophy described above. Certainly the performative attitude remains,
but it is more user friendly, more soft, more focused on empathy and emotion
than to shock. Connectivity has saturated the planet, fragmenting time and
space in a dense medium in which we are neighbors, but without being able to
touch each other.
TOUCHY, courtesy of Eric Siu |
For these
reasons, TOUCHY, a work of the artist Eric Siu is so contemporary. The
performer and artist based in Tokyo has turned himself into a human camera,
creating a helmet, reminiscent in shape and color (black and metal) the ideal
type of analogue camera. The operating principle is simple: a sensor
detects if the Siu’ skin is touched, and this opens the two diaphragms that
occlude the artist's eyes. A longer touch activates the shutter to 10
seconds, and the digital picture appears on the screen located on the back of
his helmet.
During the performance Siu keeps walking, blind, among the multitude of Tokyo, touching the city (perhaps one of the most visual of the planet), without being able to see or measure, but empathically and synaesthetically perceiving the world around. It reminds us of the urban measurements of the early Orlan, but also the suspension of the early Stelarc, yet the tragic confrontation between corporeality and urbanity becomes openness, care and availability to the inhuman and artificial contemporary urban environment. The slow movements of the artist-performer draws the eyes of the multitude, which starts asking questions in its public mind, but at the same time leads to an equal empathy and kindness from people. Siu is helpless, almost a caricature with his bow tie around his neck, his hands moving slowly to caress the city like a wild scared animal.
And in this mood appears the magic of an extraordinary short circuit: the multitude, being part of that urban environment, feels empathy, as touched by transposition. The city is the true giant planetary body of the multitude, and needs sensitivity and love. Through this short-circuit the silent multitude becomes a set of bodies and identities: a passer-by stops and decides to touch in turn Siu. And here is the second magic: the eyes of the artist 'open', he smiles, available. The human-camera has a soul, and challenges the artificial intelligences of the most advanced user-friendly interface (like those of the current iOS, for example), just to demonstrate what makes us human again. Siu That blindness that Siu imposed to himself brings back the image to its relationship with the nothingness and death, making it sacral again (for an instant and with performative irony), conceptually anchoring it to the sensory apparatus of the body (as the sense of touch, not view, is our most developed and powerful sense).
TOUCHY, courtesy of Eric Siu. |
During the performance Siu keeps walking, blind, among the multitude of Tokyo, touching the city (perhaps one of the most visual of the planet), without being able to see or measure, but empathically and synaesthetically perceiving the world around. It reminds us of the urban measurements of the early Orlan, but also the suspension of the early Stelarc, yet the tragic confrontation between corporeality and urbanity becomes openness, care and availability to the inhuman and artificial contemporary urban environment. The slow movements of the artist-performer draws the eyes of the multitude, which starts asking questions in its public mind, but at the same time leads to an equal empathy and kindness from people. Siu is helpless, almost a caricature with his bow tie around his neck, his hands moving slowly to caress the city like a wild scared animal.
TOUCHY, courtesy of Eric Siu. |
And in this mood appears the magic of an extraordinary short circuit: the multitude, being part of that urban environment, feels empathy, as touched by transposition. The city is the true giant planetary body of the multitude, and needs sensitivity and love. Through this short-circuit the silent multitude becomes a set of bodies and identities: a passer-by stops and decides to touch in turn Siu. And here is the second magic: the eyes of the artist 'open', he smiles, available. The human-camera has a soul, and challenges the artificial intelligences of the most advanced user-friendly interface (like those of the current iOS, for example), just to demonstrate what makes us human again. Siu That blindness that Siu imposed to himself brings back the image to its relationship with the nothingness and death, making it sacral again (for an instant and with performative irony), conceptually anchoring it to the sensory apparatus of the body (as the sense of touch, not view, is our most developed and powerful sense).
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