In questo post vorrei mostrare come l’idea popolare di una
‘crisi di valori’, parallela alla ‘crisi dell’economia’, si sia finalmente
mostrata per ciò che è: un alibi semplificativo che ci ha spinto a negare la
necessità di una diffusa riprogrammazione della cultura e della critica di
fronte a quelle esperienze di self-healing
e urbanismo tattico, che nelle periferie del mondo coinvolgono sia
le strutture produttive che quelle sociali e urbane.
Queste esperienze, spesso informali, difficilmente possono
rientrare nei canoni disciplinari, in quanto ibridano strategie e processi
economici, politici, sociali, di design urbano. Esse generano,
sperimentandoli, nuovi processi e nuovi valori (simbolici ed economici) che
erano stati esclusi dal main-stream del passato sistema culturale:
sussidiarietà, beni comuni,
partecipazione, cooperativismo, comunitarismo, network design, civic design,
funzioni temporanee, ecc. La loro rilevanza economica li ha fatti uscire
dall’ambito del naive, senza ancora
accoglierli appieno nel gotha delle
discipline, avendo scarse possibilità di appello per varcarne i confini.
Dovremo considerare accuratamente il nostro contesto culturale
post-industriale, comprendendo come si stia evolvendo verso forme dinamiche
organizzate in modo reticolare grazie alle tecnologie dell’informazione. Per
tale ragione l’informalità di alcune sperimentazioni (dalla pianificazione al
design architettonico) non va ridotta ad una carenza di ordine, ma
all'espressione di una cultura fatta e prodotta in modo reticolare e non
gerarchica.
Il fatto che non si possano catalogare le nuove esperienze
secondo una specificità disciplinare non comporta poi che non esistano più valori di
riferimento, anzi. Ci sembra sempre più chiaro come ci sia stato un
fraintendimento generalizzato e diffuso, un abbaglio dovuto alla quantità di differenze che sono emerse tra le
fratture del sistema gerarchico ed economico degli inizi del XXI secolo.
Abbiamo tutti ritenuto (complice la crisi dell’economia globale del 2007-2008)
che il problema strutturale della nostra società civile fosse l’assenza di valori, o quanto meno di quei valori
che erano riconosciuti dal
capitalismo avanzato e dal tardo capitalismo. Abbiamo a lungo pensato (sono passati ormai 10 anni) che fosse
entrato in crisi un certo meccanismo di produzione
dei valori, lo stesso che negli ultimi secoli ha garantito il consolidamento di
paradigmi sociali, estetici e scientifici alla nostra civiltà moderna.
Fortunatamente, passata una prima fase sperimentale, alcune
iniziative locali hanno mostrato tutta la loro capacità produttiva. Per citarne alcuni: La High Line di New York, la
passerella Luchtsingel a Rotterdam, la rifunzionalizzazione delle ex Officine Ansaldo
a Milano, la Cultural Farm a Favara (Agrigento), De Ceuvel progettato da
Space&Matter ad Amsterdam. Sono tutti progetti accomunati dall’ibridazione
di ruoli, competenze, responsabilità, processi. Quando questo approccio
sperimentale, tipico del service design
thinking, è stato applicato ad una scala maggiore, a Manhattan, dall’allora
assessore ai trasporti Jannette Sadik-Kahn, ha potuto mostrare tutta la sua
efficacia (nel contribuire al piano strategico Greater Greaner NYC) ed
efficienza (nell'ottimizzare il rapporto costi-benefici, grazie a specifici
indici di misura stabiliti a monte
delle iniziative). Dobbiamo a questo approccio la pedonalizzazione di Times
Square e la rete di piste ciclabili collegate Citi Bike, il bike sharing attivo
dal 2013. Come poter dunque sostenere che coesistano, simultaneamente, una
crisi dei valori e una straordinaria produzione di prototipi, strategie e nuove
prassi innovative senza riconoscere, quantomeno, delle lacune nell'interpretazione
del nostro tempo?
Per questo possiamo finalmente vedere il bluff della crisi dei valori per quello che è: un alibi che ci permette di addossare
alla società civile, come fosse l’ultimo capro espiatorio universale, la responsabilità di una nostra individuale
ritrosia a riprogrammare le nostre competenze e le nostre prassi, in gran parte
consolidatesi nei decenni passati. Come ci ricorda Latour, questo doppio gioco è
caratteristico della modernità, abituata filosoficamente a defilarsi dalle
proprie responsabilità. Purtroppo ora che il mondo è divenuto più piccolo
perché interconnesso, adottare alibi potrebbe essere addirittura
controproducente.
Innovazione, diffusione e consolidamento dei valori (d'uso e cognitivi) - E.Lain 2017 |
Oggi i valori sono prodotti e percepiti secondo dinamiche
variabili. Essi non appartengono più alla sfera degli universali, non possono
essere più separati dal mondo per esserne fondamento (come IL bello,
L’ordinato, L’economico, ecc…). Ne sono un palese sintomo tutte le start-up, germogli di aziende che devono
al contempo produrre valore economico
e valori non economici (sociali,
estetici, etici, ecc…), dovendosi assumere parte dei compiti che un tempo
appartenevano alla sfera della politica, dell’educazione, delle istituzioni
pubbliche. Qualche mese fa ho cercato di sintetizzare in un unico diagramma i meccanismi dell'innovazione che ruotano attorno alla creazione di nuovi valori: veniva così evidenziata la fatica segreta di questi ultimi ad emergere oltre le barriere dello status quo locale per arrivare ai rapidi flussi della globalizzazione. L'isolamento e l'interconnessione convivono infatti simultaneamente nel nostro tempo.
Il caso emblematico locale è H-Farm, che sta creando in modo
autonomo (e non necessariamente autoreferenziale) il proprio ecosistema,
realizzando edifici e percorsi dedicati alla didattica a partire dai 3 anni,
col loro Primary Years Programme. E’ una prassi necessaria, consolidata anche
in altre realtà territoriali, come gli istituti tecnici a Maranello,
sovvenzionati dalla Ferrari, o la scuola artigianale voluta a Solomeo
dall’imprenditore del cashmere Brunello Cucinelli. La comunicazione dei valori
prodotti dalle aziende brandizza dunque anche i valori sociali di riferimento,
seguendo un filo rosso che Naomi Klein ha ben delineato nel suo No Logo (2000).
Tuttavia la sua lettura politica ed etica non poteva tenere ancora conto
dell’inestricabile sovrapposizione tra social network e network society,
esplosa in questi ultimi dieci anni. Ogni tentativo di ricostruire una gerarchia di valori sarà vano
all’interno di un paradigma reticolare come quello in cui siamo immersi. Quello
che sosteniamo qui è che l’assenza di tale gerarchia non implica anche un’assenza
di valori. Scrive a tal proposito Manuel Castells:
La produttività e la competitività sono assai intensificate da questa
forma a network di produzione, distribuzione e management. Siccome i network
della new economy si espandono in tutto il mondo, facendo scomparire attraverso
la competizione forme di organizzazione meno efficienti, la nuova economia in
network diventa ovunque dominante. I territori, le unità economiche e le
persone che non funzionano bene in questa economia e che non presentano un
potenziale interesse per questi network dominanti, vengono tagliati fuori.
D’altra parte, qualsiasi fonte potenziale di valore, in qualsiasi luogo e per
qualsiasi motivo, viene connessa e programmata nei network produttivi della new
economy. (…) Sì, esiste la vita al di fuori della network society: nelle
comunità culturali fondamentalistiche che respingono i valori dominanti e
costruiscono autonomamente le fonti del loro significato; talvolta intorno a
nuove utopie alternative; più spesso a partire dalle verità trascendenti di
Dio, Nazione, Famiglia, Etnia e Territorialità. (Castells 2001)
Dunque i network hanno, intrinsecamente, il compito di far
circolare tutti i possibili valori a disposizione, rimescolandone le vecchie
gerarchie e valutandoli secondo produttività e interesse. Si tratta ancora di
un meccanismo culturale tipico del capitalismo e dell’industrializzazione, ma è
diventato così pervasivo da essere divenuto parte delle nostre esistenze. Così,
mentre la logica culturale del postmoderno aveva scoperto nel desiderio il proprio motore economico,
oggi, in questo periodo che chiamo “simultaneo”, il motore primo sembra essere
l’interesse. Si tratta di un motore
ancora più fragile del desiderio, incapace di spingere processi di medio e
lungo termine. Il tempo diviene ancora più frammentario, essendo ritmato da
finalità immediate, a brevissimo termine ma di grande interesse momentaneo.
Assistiamo così ad una generale e diffusa decostruzione della cultura in
frammenti di interesse, sostenuti da un rifluire di valori molteplici.
Il risultato di questa generale fluidificazione e
frammentazione delle passate strutture moderne mette potenzialmente in risalto,
per contrasto, quegli agenti in grado di “addensare” ciò che è fluido, creando
momentanei centri di interesse. Questi processi appartengono tutti alla
medesima categoria: quella del progetto (o,
internazionalmente, design). In una
molteplicità di valori potenziali e reali senza gerarchie (universali,
estetiche, etiche o filosofiche), il design diviene al contempo processo e
prodotto, un assemblatore di interesse e valori, oltre che di forme. Esso
travalica i confini d’azione che il moderno gli aveva assegnato come
interfaccia tra creatività, materia, strumenti e funzioni, divenendo esso
stesso motore simbolico.
La lettura che Castells dà alla città quanto sistema di
comunicazione, porta il sociologo catalano a sottolineare con enfasi il ruolo
che l’architettura contemporanea dovrebbe avere all’interno dei contesti
urbani:
Nella crisi comunicativa che ha colpito la realtà urbana, il compito
fondamentale è quello di recuperare il valore simbolico. Un ruolo che da sempre
è stato diretto appannaggio dell’architettura e che oggi diventa più importante
che mai. L’architettura , in ogni sua forma, è la nostra salvezza, in grado di
restituire un senso ai luoghi fisici immersi nello spazio dei flussi. Negli
ultimi anni, abbiamo assistito a una rinascita del simbolismo architettonico,
che in alcuni casi ha significativamente dato nuova linfa alle città e alle
aree in cui esse si inseriscono, non solo dal punto di vista culturale ma anche
economico. (…) La mancata integrazione tra quest’architettura e dei flussi e lo
spazio pubblico è una giustapposizione tra marcatura simbolica e anonimato
metropolitano. Ecco perché bisogna conciliare architettura, design urbano e
progettazione. Ogni opera architettonica ha un suo linguaggio, un suo progetto,
che non si può ridurre a una funzione o a una forma. Il senso spaziale è ancora
una costruzione culturale. Ma il significato finale dipenderà dalla messa in
relazione dell’opera con l’esistenza quotidiana dello spazio pubblico urbano.
(Castells 2001)
Una volta sgombrato il campo della produzione e della
critica dagli alibi esogeni, non rimane che accogliere la necessaria
riprogrammazione, delle prassi, delle professioni legate al design, degli
ambiti, e delle discipline. Educazione e apprendimento sono, oggi, essi stessi
oggetti di design, come lo sono le civiche e le politiche economiche locali. Il
ruolo di noi designer assume sempre più una connotazione civile, e dovremo
comprendere che il design contemporaneo non conduce sempre alla definizione di
una forma o di un oggetto. Probabilmente questo fa di noi delle avanguardie
naturali, costretti ad esplorare contesti ibridi senza il comodo riparo delle
consuetudini e delle teorie consolidate dalla storia e dalle discipline.
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