DUMBO, NYC (foto Enrico Lain, 2013) |
(vi ripropongo qui il testo 'Playground' pubblicato su Architetti e Notizie n.3, con piccole integrazioni e aggiunte)
Il nostro nomos ci ha condotto all'abitudine di considerare indissolubile il legame tra le striature con cui scriviamo e antropizziamo il nostro spazio e il carattere normativo che attribuiamo alle stesse. In altri termini alcune nostre azioni cambiano non solo lo spazio fisico ma anche il nostro modo di leggere lo stesso spazio, inserendosi tra le prassi e la memoria. Ed ecco che solitamente consideriamo lo spazio alfabetizzato e striato come natura addomesticata, mentre riteniamo che al di là di esso non esista ordine o processo superiore al nomos, il quale invece ci rassicura in termini di identità e di comunicazione e condivisione di valori.
Il senso dell'horror vacui è un po' questo: preferiamo la sicurezza di un mondo immutevole e riconoscibile (seppur per convenzione) piuttosto che ammettere che il suo carattere dinamico e inconoscibile rappresentino il concreto motore primo della sua stessa esistenza.
In altre occasioni abbiamo avuto modo di affermare che la città è una delle massime rappresentazioni dell'intreccio tra modi e mondi, poiché in essa si scontrano da sempre immaginari, tempi, azioni e interpretazioni. Lo spazio urbano (anche quando atto fondativo) è quanto rimane dell'apertura al possibile: fare spazio è condizione necessaria per iniziare a immaginare l'alternativa; fare spazio non sempre è questione fisica, spesso (soprattutto in una contemporaneità stratificata come la nostra) è condizione mentale. Si tratta di una premessa necessaria ma non sufficiente, poiché poi occorre indagare ed affrontare il possibile, così simile al nulla se non si possiedono altri strumenti oltre alla memoria di ciò che è stato.
Per queste ragioni il vuoto è argomento così pregnante (anche in senso anglofono, ovvero gravido di significati).
Nel 1989 gli OMA si dedicarono contemporaneamente a tre
concorsi (Tres Grande Bibliothèque a Parigi, ZKM a Karlsruhe e il Zeebrugge
terminal in Belgio), con l’urgenza intellettuale di verificare la validità di
quelle strategie programmatiche che verranno poi esposte in Bigness or the problem of Large
(pubblicato nel 1994[1]).
La riduzione dei termini alle sole dimensioni
come unica variabile di cambiamento mirava a realizzare una nuova sobrietà intellettuale, liberando l’architettura
da quei paradigmi collaterali che in Europa l’avevano sedotta (l’estetica, la
filosofia e le ideologie, principalmente). La ricerca di un’azione progettuale pura, possibilmente
priva di interpretazione e di poetica, serviva a Koolhaas per ricostruire, in vitro, la congestione rilevata per Manhattan, quel ‘[…] esperimento collettivo, nel quale l’intera città diventava
una fabbrica di esperienze artificiali e dove il reale e il naturale cessavano
di esistere’[2].
La congestione del manhattanismo aveva mostrato infatti che la
grande dimensione può condurre a trasformare una megalopoli in un
Mega-Villaggio[3],
e Koolhaas tenta, con Bigness, di far
superare anche all’architettura europea quel limite di esistenza, oltre il
quale gli opposti inconciliabili si fondono in un unico corpo, il cui scopo
primario non è la memoria ma l’azione.
Il tipo-grattacielo, raccontato in Delirious New York, è l’estrusione della superficie del lotto,
secondo le specifiche regole geometriche della Zoning Law del 1916 (che
imposero un volume massimo, ma senza limiti d’altezza) . La semplicità di tale
limitazione (senza imposizioni specifiche in campo igienico o funzionale)
trasformò Manhattan in un luogo del
possibile.
L'atto di estrudere il lotto è forse la quarta azione di artificializzazione antropica della natura, dopo quelle di:
- recingere
- sollevare da terra
- rendere simmetrico
Ma mentre le prime tre dialogano con la natura (annullando l'orizzonte, separandosi dalla terra, creando una regola compositiva non ricorsiva) l'estrusione del lotto ha ragioni che sono già compiutamente tecniche, e non operano all'interno di un paradigma duale uomo/natura. L'estrusione nasce grazie all'invenzione dell'ascensore da parte di Otis, è la rappresentazione di un moto verticale potenzialmente infinito senza staccare i piedi da terra. E' la terra infatti ad essere replicata, piano (dopo) piano. Nessuna naturalità, nessuna foresta: la monade di Liebniz (così ottusa e introversa) aumenta di dimensione, ma senza rinunciare alla sua colta ottusità. Finalmente, dopo la storia hegeliana di un'architettura che intende rinunciare sempre più alla materia, si presenta una gabbia per lo spirito civile di dimensioni metropolitane. Si richiude l'anello città-edificio: ogni edificio è proposta urbana dentro un involucro architettonico.
‘(…) D’ora in avanti ogni lotto urbano potrà accogliere – almeno
teoricamente – una combinazione imprevedibile e instabile di attività
simultanee, che toglieranno all’architettura molte delle sue capacità di
preveggenza e renderanno la pianificazione un atto di predizione limitata. (…) il
Grattacielo diventa lo strumento di una nuova forma di urbanistica inconoscibile.’[4]
Il risultato, forse imprevisto, del manhattanismo è stato
dunque di trasformare uno dei principali e densi centri inurbati del pianeta in
un laboratorio a cielo aperto.
DUMBO, NYC (foto Enrico Lain, 2013) |
Le attività di vicinato e i grossi centri di
distribuzione sono mescolati dal mercato interno ed un’analisi fenomenologica
rileva, banalmente, che l’efficacia urbanistica di quartieri come SoHo dipende
dalla disponibilità al movimento dei pedoni e delle attività dei vendors lungo le strade. Scrivono Mikoleit e Pűrckhauer che ‘cities
are made of scenes. Those scenes have a syntax. (…). Man mistrust many
things, but he will follow the sun blindly. (…). Shop owners profit from the sun-ripened
happiness of people who fall prey to consumerism in the pleasure of sunlight’.[5]
Il vuoto di Manhattan è dunque di
tipo differente da quello di una città europea? Non crediamo che il vuoto sia differenziabile, si tratta di riconoscerne
le potenzialità in quanto mezzo (e
non semplice assenza), mirando ad una
lettura di tipo esperienziale ed esplorativo della città e delle sue
architetture. Nel vuoto infatti la percezione, l’interpretazione e l’immaginazione
si fondono, sfumandone i confini disciplinari e semantici.
Il vuoto urbano creato di fronte al Seagram garantisce uno splendido punto d'osservazione di Park Avenue (foto Enrico Lain, 2013) |
Il vuoto è dunque un originario fatto primario per la città: ne costituisce la profonda ragione
semantica, é la matrice di esistenza del manufatto urbano e dell’efficacia
dell'azione antropica, è il grembo che accoglie soggetti e oggetti nei loro
quotidiani rapporti di azione reciproca. Il vuoto armonizza quello che le forzature
duali dell'urbanità hanno cercato di distinguere in modo dia-logico:
naturale/artificiale, interno/esterno, forma/figura, soggetto/oggetto, rappresentazione/significazione,
progetto/realizzazione.
Il Memorial 911 è un monumento al vuoto, un apparente ossimoro per l'interpretazione urbana classica. (foto Enrico Lain, 2013) |
Il vuoto è l’istante iniziale della città, quanto
l’orizzonte per il paesaggio. E quando la struttura
urbana si sgretola, il ritiro (shrinkage[6])
dello spazio pianificato lascia campo libero ai fenomeni di up-cycling e di re-cycling molecolari, in nome non più della libertà ma della pura sopravvivenza.
Oggi (forse per la prima volta dopo le guerre mondiali) vediamo città
occidentali abbandonate e decadenti[7], è nuovamente il momento
di riformare i paradigmi che hanno fallito, come accade in ogni epistemologia. Ci
ricorda Coppola che ‘allo scoccare degli anni Settanta, a New York il degrado
si era spinto (fino a) l’isola di Manhattan, cancellando quasi del tutto il
valore immobiliare di aree che oggi sono fra le più costose del pianeta. (…) Liz
(Christy) ed i suoi decidono di dare vita a un vero e proprio community garden in un’area abbandonata
fra Bowery e Houston Street (…). (Oggi) nei vuoti scaturiti dalle demolizioni,
residenti che non si rassegnano al destino della fuga danno vita a spazi
pubblici innovativi, composti di aree comuni e di orti individuali.’[8].
La valorizzazione del vuoto della High Line genera incremento del valore immobiliare dei dintorni. (foto Enrico Lain 2013) |
Ci siamo abituati a
considerare la città come un punto zero
della nostra storia civile, rimuovendo, fino ad oggi, il fatto che oltre la
scena dell’artificio urbano ci ritroviamo nel regno della sopravvivenza, e
dunque nella ragione profonda (non semantica ma biologica) dell’ontologia. Il cittadino è divenuto il reale
monumento futuro della città: ogni smart city anela ad avere city users colti ed in perenne
movimento. Non possiamo nascondere un senso di vertigine (che ancora ci coglie
nel vuoto) di fronte a questo cambio di paradigma. E’ un’ansia per il futuro,
che rischia di coglierci impreparati.
Il vuoto è stato a lungo frainteso dall’architettura: a
causa forse dell’assenza di forma, è stato raramente considerato come paesaggio
iniziale, rimosso dai ‘deliri dell’interpretazione’[9]. L’architettura, come
accadde già nei tumultuosi anni ’60, ritrova sempre il proprio incipit nel vuoto. Per questo (allora
come oggi) esso divenne occasione di rinnovo dei paradigmi: comparvero i
gonfiabili di Haus Rucker&Co., le trasformazioni dei vuoti urbani nelle
visioni degli Archigram alla ricerca di resilienza
nella città.
Aggiungiamo il fatto che la città non è più solo sostanziale. Grazie alla Rete infatti
essa è potenzialmente la prima realizzazione di realtà aumentata, poiché il virtuale (ciò che è stato e potrebbe
essere) e l’attuale (ciò che è ora)
continuano a dialogare in modo serrato e durevole,
anche se instabile (e dunque vitale).
In questa complessa dinamica sistemica il vuoto funge da collettore di istanze
altrimenti distanti: la corporeità, la misura, la funzione, il significato, le
immagini, le memorie.
Per immaginare questa condizione ci viene in aiuto l’arte
performativa di Space Time Foam[10]
di (Tomàs Saraceno), un’opera site
specific realizzata all’Hangar Bicocca di Milano nel 2012. Lo spazio vuoto
(di dimensioni notevoli) veniva suddiviso in piani racchiusi da fogli di spesso
nylon (percorribile dagli spettatori), creando così un vuoto reattivo, in cui gli spostamenti dei
pesi corporei determinavano rigonfiamenti e avvallamenti improvvisi. L’emozione
(tutta corporea) di essere in un vuoto in
movimento lasciava sperimentare un rapporto diverso dall’abituale spazio
visivo dell’orizzonte. Space Time Foam metteva in luce la
particolare condizione di libertà-connessa
(dunque non assoluta) del soggetto contemporaneo, poiché le vibrazioni dei piani in nylon subivano i
movimenti degli altri spettatori in transito.
Oggi infatti il soggetto non è più un genio-esploratore
(abitante di avamposti lunari, come quelli descritti dai Radicals degli anni
‘60). Egli è parte di una networking
society che opera per elevata interattività e massimo accesso ai saperi.
Esso è divenuto un player che conosce
le regole locali e che elabora strategie universali e istantanee. La città è il suo campo
da gioco ideale.
Sintomatico è infine il lavoro di ricerca che ha portato
alla realizzazione del video MY PLAYGROUND (a
film about movement in Urban Space), diretto da Kaspar Astrud Schröder[11] (in collaborazione con
BIG), e realizzato nel 2009 in occasione del parco realizzato per i free runners di Team JiYo di Copenhagen,
con la partecipazione di atleti di parcour
e traceurs di Giappone, Cina, Stati
Uniti, Inghilterra e Danimarca. Il movimento e il volo[12]
nei gesti ginnici dei free runners mostrano come siano possibili dei cambi
(istantanei e puntuali) delle funzioni di parti
di edifici e di città. Il parkour (che esprime un attraversamento
consapevolmente corporeo dei vuoti
della città, differentemente da quello trasognante e inconscio della deriva) è la sperimentazione del possibile invisibile (ovvero la virtualità funzionale della città) al
fine di renderlo visibile grazie
all’azione del corpo, l’esplorazione di un immenso parco giochi in cui noi city users siamo immersi con continuità.
Ma non c’è finalità ginnica o hobbistica in tutto questo: testiamo apparati in
versioni beta (prototipi) su città
che attendono di rivedere il futuro, ma anche di essere salvate, e noi con
loro.
[1] KOOLHAAS R., MAU B., S, M, L, XL, 010 Pubblishers, Rotterdam,
1995, p. 495
[2]
KOOLHAAS R., Delirious New York, un manifesto retroattivo per Manhattan, 1978
- ed. it. Electa, MI, 2001, pp. 7-8
[5] MIKOLEIT A., PŰRCKHAUER M., Urban Code – 100 Lessons for Understanding
the City, The MIT Press, Cambridge, Massachussets, pp. 9-10
[6]
Termine utilizzato da Alessandro Coppola per indicare la condizione di una
città che decresce (in dimensioni e forzatamente) nel tentativo di ottimizzare
il rapporto tra sottoservizi (e relativi costi) e una drastica riduzione del
numero dei residenti.
[7]
Mentre scrivevo questo breve paper è giunta notizia del fallimento della città
di Detroit, una delle più fiorenti e ricche negli Stati Uniti negli anni
’50-’60.
[8]
COPPOLA A., Apocalypse Town – cronache dalla fine della civiltà urbana,
ed. Laterza, Bari 2012, pp. 135-136
[12]
Il volo è la massima esperienza del vuoto, da Yves Klein ai contemporanei runners.
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