Mappa dei concetti che articolano il rapporto tra l'urbanità e il corpo |
La
città non corrisponde, purtroppo per noi architetti, alla semplice somma degli
edifici e degli spazi che la compongono. La città è un continuum spazio-temporale:
subisce curvature e strappi. E gli abitanti della città metabolizzano queste
variazioni attraverso continue ricostruzioni di quelle che Kevin Lynch
definisce immagini della città. La
possibilità di formarle è determinante per essere partecipi della città e della sua vita. E’ un modo innato di abitare la città e la strategia più
semplice per sentirsi cittadini.
Il
gioco delle rappresentazioni assume infatti nella città un peso determinante,
culmine di un sistema di apparati che la letteratura di settore ha indagato a
fondo attraverso un uso smodato di parole: la morfologia, la tipologia, la composizione polare, la composizione
assiale, la città-edificio, l’edificio-città, la grande dimensione,
l’architettura virale, l’autocostruzione, l’architettura dell’effimero, ecc.... Queste
strategie di lettura/scrittura della città tentano di ricucire il rapporto tra
il tutto e la parte (le morfologie hanno questo primo grande obbiettivo),
tuttavia lasciano un vuoto tematico su quella modalità di abitare che non lascia stratificazioni sulla città, non procede per
invarianza temporale, ma per micro-variazioni che spesso risultano
impercettibili alle strategia di lettura consolidate dalla storia della critica
dell’architettura.
Eppure
affermare che la città è in primis un sistema di rappresentazioni con una
straordinaria varietà di dimensioni scalari è quasi una banalità, poiché la
comunicazione tra i componenti del complesso sistema sociale degli abitanti è conditio sine qua non per l’esistenza di una collettività. Nella
città possiamo toccare con mano il processo che dà corpo ai segni, determinando una asimmetria del medium che di fatto rende
l’architettura (e la città) un sistema di segni differente da tutti gli altri, e dunque spesso incomunicabile in modo assoluto, ma presente e viva in modo empatico, emozionale, corporeo.
In
fin dei conti la città ha sempre inteso dare mostra di sé, in qualità di rappresentazione
dei poteri politici, economici e sociali, con risultati esteticamente e
compositivamente disomogenei: dal monumento classico, ai sobborghi, al campo
nomadi, la città reca traccia delle volontà che la abitano e le danno forma. Con
forme e costi diversi la città si veste e traveste, anche ludicamente (il
Guggenheim di Ghery a Bilbao convive con un parco giochi per bambini!). Spesso
poi la progettazione quantitativa tralascia le aree dismesse per ragioni
economiche. Eppure spesso in quei luoghi i cittadini (anche quelli
estemporanei) si danno liberamente rappresentazione (in forme diverse,
costruendo, scrivendo, creando parkour
sui tetti dei palazzi), come accade alle piante pioniere che attecchiscono
nelle aiuole incolte. E’ utile ricordare a questo punto l’originario
significato di felice come ricco di messi, non credete?
Queste
azioni discontinue sulla realtà urbana sono propriamente monumentali (non è più la sola questione di dimensioni, bellezza o
carattere costruttivo di pregio), poiché mostrano
e ammoniscono della presenza di
frammenti altri della civiltà non
ancora rappresentate: mai come oggi cives
e civitas sono intrecciati da una
reciproca attribuzione di significati.
L’interesse
che l’architettura dimostra verso la realizzazione di un immaginario collettivo
è sintomatico di questa lettura della realtà urbana come sistema aperto a
transiti ed attraversamenti, e il cittadino (ma anche il nomade e il turista) è un
soggetto consapevole delle strategie mediatiche che guarda con attenzione la
città e le sue immagini per agire nel
contesto urbano. Occorre forse abituarsi, come progettisti, a questa apertura dei confini semantici e
territoriali della città, all’interrelazione tra i sistemi, alla porosità dei
recinti (si sente nel fondo l’eco dell’Agenda 21). Ma certamente è
indispensabile dare anche sistemi di rappresentazione immediati, economicamente
accessibili (l’architettura, purtroppo è ancora un apparato mediatico costoso),
per trasferire sulla città un po’ di quel giocoso carosello che i social
network propongono in rete basandosi su condivisione
dei contenuti e rappresentazioni del
sé. Poiché progettare oggi la città felice è comprendere le regole di un
gioco collettivo piuttosto che indagare le leggi universali di una città giusta.
A questo punto vi propongo una
metafora. Immaginiamo di dover costruire una città per nostro figlio con i Lego
(o simili). Da dove cominciamo? Innanzitutto ci serve decidere dove la
mettiamo: sul pavimento? Sul tavolo? O abbiamo già una base fornita con le
costruzioni stesse? Nell’ultimo caso lo spazio per la città in miniatura sarà
più limitato e ordinato, gli incastri sono prestabiliti. Negli altri casi,
invece, vi è maggiore libertà di scelta, potremmo immaginare grandi spazi
vuoti, o inclinazioni particolari dei blocchetti di Lego che rappresentano le
case e i palazzi…
La progettazione urbana ha
operato nei medesimi termini, a seconda che, nella propria lettura della città
esistente, rilevasse la presenza o meno di ‘incastri’ prestabiliti (definiti, da alcuni, ‘fatti primari’ o ‘invarianti’). Si dava così importanza al dato memoriale (e anche storico), poichè la rappresentazione principale era ancora il linguaggio, che è piuttosto affezionato alle sue strutture formali (grammatica e sintassi), e la città doveva poter 'parlare' ai suoi cittadini... Nel contempo la progettazione urbana ha tentato di codificare anche le
‘forme’ e i ‘colori’ dei ‘mattoncini’ da aggiungere alla costruzione della
città (tipologia, caratteri costruttivi e funzioni). Questo il senso della
Città Analoga di Aldo Rossi del 1976, che, tuttavia, contamina la propria
composizione urbana per parti con riferimenti all’immaginario pittorico delle
prospettive tardo rinascimentali. La prima preoccupazione era quindi stabilire
il linguaggio con cui leggere e progettare e costruire la città e l’architettura.
Più i mattoncini colorati erano definiti più era condivisibile e comunicabile
ogni operazione sulla città.
Seppur tale paradigma sia
apprezzabile per la sua aspirazione all'universalità, esso tuttavia partiva da un presupposto,
ovvero che lo spirito profondo di ogni configurazione urbana (passata, presente
e futura) fosse riconducibile alla collettività dei suoi cittadini (Hegel lo
avrebbe chiamato volkgeist). L’architettura
e la città ne sarebbero così dirette emanazioni formali, per tale ragione era
fondamentale che l’unità di questo spirito collettivo non si disperdesse in
mille colori e forme. In secondo luogo questa impostazione valeva solamente per le città esistenti, non certo per quelle di nuova fondazione...
Purtroppo oggi il volkgeist non è più quello di un tempo! Infatti
esso è stato oggetto dell’industria culturale nata proprio attorno agli anni
’70 (e quindi si comprendono le ragioni del libro L’architettura della città di Rossi, il quale sottolinea tra le
righe la necessità di salvaguardare la purezza dell’abitare rispetto alle logiche culturali del consumo di merci e di
valori che il tardo capitalismo postmoderno ci propongono da più di
trent’anni). Riducendo all’indispensabile queste trasformazioni potremmo dire
che l’individualismo (che nulla ha a che vedere con l’individuo) ha soppiantato
la collettività, per lo meno come strategia di individuazione del target dell’industria culturale. Questa
è un’ulteriore causa della distanza che si è creata tra i cittadini e la città.
Ciò ha portato a città infelici? Se l’etimo di felice è riconducibile a produttivo,
allora l’infelicità è statica, non produttiva. Che cosa produce la città
felice? A mio avviso principalmente valori
collettivi, dal momento che la produzione di merci è ormai diffusa, non
appartiene necessariamente alla città.
Attenzione, però, perchè il binomio architettura/città è una riduzione forzosa della questione in campo: come ho detto esistono altre palette, azioni possibili sull'urbano che non hanno necessità dei tempi, dei luoghi (e dei costi) dell'architettura. Street art (ringrazio il mio amico, l'arch. Robert Putti che ne è un appassionato lettore, soprattutto di Banksy), installazioni, riuso di luoghi dismessi mediante festival stagionali, sono alcune tra le strategie possibili in alternativa alla logica della ruspa e della costruzione d'architettura.
Sembrerebbe dunque necessario
trovare un nuovo paradigma che ci permetta di recuperare da un lato lo spirito
collettivo e dall’altro di introdurre l’emozione e la poetica nei meccanismi
della città (sia essa vista come una macchina/organismo funzionalista, o come una somma ben articolata di architetture e monumenti).
La strategia che propongo per elaborare questo paradigma è (anche) la lettura di movimenti artistici
collaterali (e a volte, lo riconosco, di rottura) che hanno basato sulla
corporeità la propria poetica d’avanguardia. Il corpo, infatti, è l’anello che
congiunge politica e poetica, architettura e urbanistica, potere e libertà,
teoria e prassi.
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