A ridosso del festival 'New Generations' che si terrà a Genova a partire da domani, 26 novembre, ho deciso di condividere qui un paio di slide che ho preparato per la tavola rotonda su Upcycling Metabolism. A quanto pare non ci sarà tempo per mostrarle, ma mi sembrano ancora valide, per cui le posto qui.
In esse faccio riferimento alla questione delle politics come ad un anello ancora mancante (soprattutto in Italia), capace di articolare una maggiore sinergia (ovviamente auspicabile) tra upcycling e sostenibilità.
E' indubbio che oggi ci troviamo di fronte ad un ritorno dei temi cari al Metabolismo nipponico (e non solo) degli anni '60-'70. Mi sono chiesto pertanto in cosa, il nuovo metabolismo, possa essere diverso. La ricerca di un nuovo metabolismo impone, a mio avviso, almeno tre livelli di
comprensione e analisi:
1-
Comprensione delle ontologie
2-
Comprensione delle trasformazioni
3-
Comprensione delle sinergie e connessioni
I rapporti tra ambiente, città e architettura non possono
essere racchiusi in letture di carattere universale. La loro durata, la loro
dinamica, la loro mutazione li pongono in modo sempre nuovo. Non esistono dunque fatti
urbani conclusi così come non esistono fatti
scientifici completamente universali. La stessa oggettività della scienza è
falsificata dalle precondizioni al contorno che il laboratorio impone (e che riducono la complessità del reale), e dovremmo prima o poi ammettere che la nostra conoscenza del
mondo si stia spostando sempre più verso l’esplorazione e l’incertezza: dopo il
summit di Kyoto del 1997 è stato chiaro che la politica e la scienza non
potevano continuare ad ignorarsi e che non avevano nessuna certezza in merito
al futuro del pianeta.
Nel campo specifico della ricerca architettonica e urbanistica
più avanzata, nel corso degli ultimi anni sono emersi due paradigmi solo
apparentemente complementari e che hanno le proprie radici proprio negli anni '70, momento in cui il mondo era perennemente sull'orlo del collasso (come ora, per molti versi).
Mi riferisco da un lato all’ambito della
sostenibilità e dall’altro a quello dell’upcycling. Vengono comunemente
affiancati in quanto rappresentano, entrambi, delle alternative al paradigma di accumulo che da almeno 150 anni lega indissolubilmente la trasformazione urbana al capitale tramite la
produzione (monoculturale) di nuovo valore
fondiario.
Rileggendo ontologicamente la sostenibilità a partire dalle posizioni dell'upcycling, mi è parso di rilevare che essa (già limitata dalla suddivisione in sostenibilità dell'edificio e sostenibilità urbana) sia molto più attiva ed efficace a scala architettonica e tecnica, ma presenti invece strategie deboli nei confronti delle politiche. Per questo ipotizzo qui che sostenibilità e upcycling
siano diversi, e da questa diversità provenga sia la divergenza dei loro
obiettivi che l’impasse in cui spesso finiscono i tentativi di rigenerazione.
Una volta chiarite le
diversità e le opportune convergenze, sostenibilità e upcycling potranno
realmente cooperare per l’innovazione dei sistemi urbani, a patto che esse possano
operare in un nuovo contesto collettivo
e connettivo. Non mi dilungherò su
questo contesto (che di fatto è una meta-teoria),
essendo ampiamente descritto dai suoi studiosi (Latour, Callon e Law).
La sostenibilità urbana è mirata alla realizzazione di un
sistema locale sostanzialmente adiabatico,
per il quale sia le emissioni che le immissioni possano tendere a zero. Nel
paradigma della sostenibilità (che molto deve alla filosofia della decrescita
di Latouche) la progettualità è limitata alla dimensione: si potrà intervenire
alla dimensione architettonica (ad esempio coi parametri NZEB), oppure sulla
dimensione urbana (riducendo il traffico, le superfici impermeabili o il
consumo di energia elettrica per l’illuminazione pubblica). La sostenibilità
mira così alla riduzione dell’impronta ecologica, immaginando il mondo (e le
sue risorse naturali) un bene finito di cui ridurre il più possibile il
consumo. Secondo il plot de La tragedia
dei beni collettivi [Hardin, 1968] l’ontologia della sostenibilità non si
assume alcuna responsabilità progettuale nei confronti del pianeta: se Malmo
consumerà meno energia e produrrà meno CO2 nell’atmosfera ciò non porterà
Pechino ad essere più morigerata nei confronti del climate change.
La sostenibilità è quindi una straordinaria bandiera bianca per
ogni attivista: è una resa politica, la rinuncia ad immaginare il mondo in
altro modo poiché la sua finalità è il compromesso. La sua è una asimmetria
palese, una filosofia per le località e
comunità nord-europee, che godono di alti redditi, ottimo welfare e densità
abitative limitate. La sostenibilità non potrà quindi esserci di aiuto dal
punto di vista dell’intero metabolismo
urbano e planetario, anche se potrà senz’altro essere importante per il suo
ruolo di interaccia morigerata con i sistemi naturali. Potremmo definirla condizione necessaria ma non sufficiente.
L’upcycling, fin dalle sue origini semantiche nei primi anni
’70 (e dunque concettualmente già geneticamente obliterato dalla crisi
petrolifera ed energetica) deve al testo di Charles Jencks (Adhocism) la sua impostazione
radicalmente anti-ideologica. Questo implicito pragmatismo rende l’upcycling molto
meno radicale e molto più reattivo e scalabile. Per l’upcycling il primo passo
è il cambio di punto di vista sulle cose, in una sorta di calcolata deriva
dadaista: i contesti spesso rinchiudono le potenzialità latenti degli oggetti,
occorrerà prima di tutto liberarli dalle pastoie di vecchie abitudini e
paradigmi. Ecco che, hackerando gli
oggetti scartati dai processi precostituiti, sarà possibile accorciare le
filiere, allungare le durate e
scoprire il profondo legame tra soggetti e oggetti. Non è tutto questo, in sé,
condizione sufficiente, premessa basica per ogni ulteriore intenzione di
sostenibilità?
Dal punto di vista ontologico l’upcycling non riguarda direttamente la produzione, non si occupa della
riproduzione né della rappresentazione, non si preoccupa di migliorare i vecchi
processi in nome di una rinnovata ideologia ecologista: l’upcycling è la
possibilità di immaginare nuovo futuro, per oggetti e soggetti. L’upcycling è
dunque trasversale alle scale del progetto, predispone continuamente ecosistemi
potenziali (poiché riconosce che oggetti e soggetti sono interconnessi oltre il
semplice rapporto funzionale), genera prototipi ed errori, sperimentando, ogni
volta, nuovi mondi possibili. L’upcycling è quindi al contempo olistico e particolare, incomprensibile senza i suoi specifici contesti.
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