critics+practices in contemporary architecture and spatial planning - critica, teoria e prassi in architettura e pianificazione urbana

mercoledì 25 novembre 2015

UPCYCLING #03 - politiche e sostenibilità


A ridosso del festival 'New Generations' che si terrà a Genova a partire da domani, 26 novembre, ho deciso di condividere qui un paio di slide che ho preparato per la tavola rotonda su Upcycling Metabolism. A quanto pare non ci sarà tempo per mostrarle, ma mi sembrano ancora valide, per cui le posto qui.
In esse faccio riferimento alla questione delle politics come ad un anello ancora mancante (soprattutto in Italia), capace di articolare una maggiore sinergia (ovviamente auspicabile) tra upcycling e sostenibilità



E' indubbio che oggi ci troviamo di fronte ad un ritorno dei temi cari al Metabolismo nipponico (e non solo) degli anni '60-'70. Mi sono chiesto pertanto in cosa, il nuovo metabolismo, possa essere diverso. La ricerca di un nuovo metabolismo impone, a mio avviso, almeno tre livelli di comprensione e analisi:
1-    Comprensione delle ontologie
2-    Comprensione delle trasformazioni
3-    Comprensione delle sinergie e connessioni

I rapporti tra ambiente, città e architettura non possono essere racchiusi in letture di carattere universale. La loro durata, la loro dinamica, la loro mutazione li pongono in modo sempre nuovo. Non esistono dunque fatti urbani conclusi così come non esistono fatti scientifici completamente universali. La stessa oggettività della scienza è falsificata dalle precondizioni al contorno che il laboratorio impone (e che riducono la complessità del reale), e dovremmo prima o poi ammettere che la nostra conoscenza del mondo si stia spostando sempre più verso l’esplorazione e l’incertezza: dopo il summit di Kyoto del 1997 è stato chiaro che la politica e la scienza non potevano continuare ad ignorarsi e che non avevano nessuna certezza in merito al futuro del pianeta.

Nel campo specifico della ricerca architettonica e urbanistica più avanzata, nel corso degli ultimi anni sono emersi due paradigmi solo apparentemente complementari e che hanno le proprie radici proprio negli anni '70, momento in cui il mondo era perennemente sull'orlo del collasso (come ora, per molti versi).
Mi riferisco da un lato all’ambito della sostenibilità e dall’altro a quello dell’upcycling. Vengono comunemente affiancati in quanto rappresentano, entrambi, delle alternative al paradigma di accumulo che da almeno 150 anni lega indissolubilmente la trasformazione urbana al capitale tramite la produzione (monoculturale) di nuovo valore fondiario

Rileggendo ontologicamente la sostenibilità a partire dalle posizioni dell'upcycling, mi è parso di rilevare che essa (già limitata dalla suddivisione in sostenibilità dell'edificio e sostenibilità urbana) sia molto più attiva ed efficace a scala architettonica e tecnica, ma presenti invece strategie deboli nei confronti delle politiche. Per questo ipotizzo qui che sostenibilità e upcycling siano diversi, e da questa diversità provenga sia la divergenza dei loro obiettivi che l’impasse in cui spesso finiscono i tentativi di rigenerazione.
Una volta chiarite le diversità e le opportune convergenze, sostenibilità e upcycling potranno realmente cooperare per l’innovazione dei sistemi urbani, a patto che esse possano operare in un nuovo contesto collettivo e connettivo. Non mi dilungherò su questo contesto (che di fatto è una meta-teoria), essendo ampiamente descritto dai suoi studiosi (Latour, Callon e Law). 



La sostenibilità urbana è mirata alla realizzazione di un sistema locale sostanzialmente adiabatico, per il quale sia le emissioni che le immissioni possano tendere a zero. Nel paradigma della sostenibilità (che molto deve alla filosofia della decrescita di Latouche) la progettualità è limitata alla dimensione: si potrà intervenire alla dimensione architettonica (ad esempio coi parametri NZEB), oppure sulla dimensione urbana (riducendo il traffico, le superfici impermeabili o il consumo di energia elettrica per l’illuminazione pubblica). La sostenibilità mira così alla riduzione dell’impronta ecologica, immaginando il mondo (e le sue risorse naturali) un bene finito di cui ridurre il più possibile il consumo. Secondo il plot de La tragedia dei beni collettivi [Hardin, 1968] l’ontologia della sostenibilità non si assume alcuna responsabilità progettuale nei confronti del pianeta: se Malmo consumerà meno energia e produrrà meno CO2 nell’atmosfera ciò non porterà Pechino ad essere più morigerata nei confronti del climate change.
La sostenibilità è quindi una straordinaria bandiera bianca per ogni attivista: è una resa politica, la rinuncia ad immaginare il mondo in altro modo poiché la sua finalità è il compromesso. La sua è una asimmetria palese,  una filosofia per le località e comunità nord-europee, che godono di alti redditi, ottimo welfare e densità abitative limitate. La sostenibilità non potrà quindi esserci di aiuto dal punto di vista dell’intero metabolismo urbano e planetario, anche se potrà senz’altro essere importante per il suo ruolo di interaccia morigerata con i sistemi naturali. Potremmo definirla condizione necessaria ma non sufficiente.

L’upcycling, fin dalle sue origini semantiche nei primi anni ’70 (e dunque concettualmente già geneticamente obliterato dalla crisi petrolifera ed energetica) deve al testo di Charles Jencks (Adhocism) la sua impostazione radicalmente anti-ideologica. Questo implicito pragmatismo rende l’upcycling molto meno radicale e molto più reattivo e scalabile. Per l’upcycling il primo passo è il cambio di punto di vista sulle cose, in una sorta di calcolata deriva dadaista: i contesti spesso rinchiudono le potenzialità latenti degli oggetti, occorrerà prima di tutto liberarli dalle pastoie di vecchie abitudini e paradigmi. Ecco che, hackerando gli oggetti scartati dai processi precostituiti, sarà possibile accorciare le filiere, allungare le durate e scoprire il profondo legame tra soggetti e oggetti. Non è tutto questo, in sé, condizione sufficiente, premessa basica per ogni ulteriore intenzione di sostenibilità?

Dal punto di vista ontologico l’upcycling non riguarda direttamente la produzione, non si occupa della riproduzione né della rappresentazione, non si preoccupa di migliorare i vecchi processi in nome di una rinnovata ideologia ecologista: l’upcycling è la possibilità di immaginare nuovo futuro, per oggetti e soggetti. L’upcycling è dunque trasversale alle scale del progetto, predispone continuamente ecosistemi potenziali (poiché riconosce che oggetti e soggetti sono interconnessi oltre il semplice rapporto funzionale), genera prototipi ed errori, sperimentando, ogni volta, nuovi mondi possibili. L’upcycling è quindi al contempo olistico e particolare, incomprensibile senza i suoi specifici contesti.

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