Domenico Di Siena a CO+ (PD - Italia) introduce CivicWise |
Ho avuto il piacere di incontrare Domenico Di Siena a Padova, giovedì 21 maggio scorso.
Uomo pacato, gran comunicatore, instancabile viaggiatore e un pizzico idealista (il che non guasta), ha presentato qui in città la recentissima piattaforma CivicWise (di cui è ideatore e promotore), e che potrebbe divenire un'ottima risorsa per attivare comunità in progetti di city making.
Domenico, qualche tempo fa, aveva accettato di rispondere ad alcune domande sulla sua esperienza nel processo di network design DREAMHAMAR (con Ecosistema Urbano), parlando del fragile ma stimolante incontro tra il mondo fisico e l'infrastruttura digitale.
Seguendo il motto di Di Siena (sharing is caring) pubblico qui di seguito l'intervista integrale. Ringrazio ancora Domenico per la sua disponibilità, cortesia e professionalità.
L'intervista è lunga ricca di spunti, ma ne vale la pena. Buona lettura!
FRAME
CULTURALE E PROGETTAZIONE DEI PROCESSi:
D: Oggi ci troviamo
di fronte alla necessità di inventare nuove forme di interazione e connettività
urbana, anche attraverso l’uso di tecnologie specifiche. Potresti descriverci,
dal tuo osservatorio, il frame culturale emergente per l’urbanità futura,
entrando nel merito di cos’è la sharing city e il p2p urbanism? In cosa sono
innovative rispetto alla disciplina della pianificazione?
R: Dopo anni di
tecnicismi e accesi confronti tra la disciplina urbanistica, quella accademica,
e la reale dinamica di sviluppo e gestione del territorio, a mio modo di
vedere, oggi è assolutamente necessario promuovere una accurata riflessione
sulle dinamiche democratiche, partendo dalle reali possibilità dei cittadini di
esserne protagonisti.
Il consolidamento degli stati moderni ha
progressivamente indebolito le identità locali e spostato il dibattito politico
su una scala nazionale che ha purtroppo causato un allontanamento dalla
situazione reale dei territori; una dinamica a cui abbiamo assistito purtroppo
anche nell’ambito economico e culturale.
La tecnologia ha semplificato ed enfatizzato
tale processo: le telecomunicazioni e i moderni mezzi di trasporto hanno
permesso di ridurre enormemente le naturali barriere fisiche.
Come conseguenza abbiamo assistito a un
progressivo allontanamento della vita dei cittadini dalle dinamiche che
generano le identità ed il carattere dei quartieri in cui viviamo. Abbiamo
assistito ad una sorta di indebolimento della realtà “spaziale” del territorio.
E’ per questo motivo che oggi dobbiamo prima
di tutto ricuperare questa fisicità del territorio e a mio punto di vista solo
é possibile se i cittadini ritornano ad essere i protagonisti. Può sembrare un
discorso semplicistico o naif, pero è probabilmente l’unica forma per ritornare
a parlare di città e territorio in modo serio.
Per rimettere i cittadini al centro, il
problema non è urbanistico in senso stretto, ma politico-democratico. Dobbiamo
riformulare la relazione tra le istituzioni “democratiche” ed il territorio.
Nell’idea moderna della democrazia, lo stato
e le autorità locali governano (o almeno ci provano) in modo esclusivo un
territorio. Oggi dovremmo spostare la bilancia verso la promozione di una governance, dove il governo e le amministrazioni
locali sono “solo” uno dei principali agenti. Dobbiamo cioè cominciare a
ragionare in termini di Città Condivise e quindi amministrazioni condivise,
dove i cittadini entrano in gioca in forma diretta e attiva.
Citando Gregoria Arena:
Le funzioni
nell’amministrazione condivisa sono svolte sia dai cittadini attivi sia
dall’amministrazione. La sussidiarietà è infatti un principio relazionale e
l’amministrazione condivisa, che di tale principio è la traduzione sul piano
amministrativo, è anch’essa per definizione un modello fondato sulla
collaborazione fra due soggetti, entrambi indispensabili affinché
l’amministrazione condivisa possa esistere e quindi, di conseguenza, entrambi
indispensabili affinché la sussidiarietà sia concretamente realizzata.
Potremmo considerare la Città Condivisa, o
Sharable City, il risultato di una amministrazione condivisa. In realtà é
qualcosa di molto più amplio. E’ importante tener presente che si tratta
dell’idea che non tutto debba passare per l’approvazione delle amministrazioni
locali. Detto ciò é assolutamente fondamentale specificare che non mi riferisco
alla promozione di una politica di laissez
faire in cui il governo scompare. Si tratta piuttosto di un modello in cui
diventiamo capaci di offrire alla cittadinanza attiva l’opportunità di agire
autonomamente, sempre e quando si tratti di azioni che promuovano il bene
comune.
In altre parole l’elemento essenziale in
tutto ciò è la capacità di andare oltre la rappresentatività propria del
modello democratico attuale, per cui ogni intervento nella città é misurato in
base alla capacità rappresentativa di coloro che la promuovono, essendo le
amministrazioni comunali legittimate da votazioni democratiche e gli altri
agenti locali legittimati dall’appoggio popolare che riescono ad ottenere. In
questo modo risulta difficile per i cittadini, che non si organizzano in
strutture formali, poter essere e sentirsi direttamente parte della gestione e
autori dell’identità del territorio in cui vivono.
In tal senso la Shareable City è una città
che promuove attività sociali, politiche ed economiche che nascono dalle
relazioni dirette con le realtà locali, mantenendo uno spirito collaborativo
basato sull’implicazione diretta delle persone che vivono nel territorio.
Ovviamente questo non toglie la capacità ed incluso la necessità di riuscire a
collegare costantemente questi processi locali con quanto avviene globalmente,
incarnando in modo consapevole ed intelligente la cosiddetta dimensione
glocale.
In questo nuovo fenomeno ritroviamo un uso
della tecnologia che prende un altro piede, non più utilizzata solo per rompere
le barriere fisiche ed accelerare i processi di intermediazione, ma anche per
promuovere le sinergie e la comunicazione a coloro che condividono un territorio,
promuovendo quella che ho chiamato l’Intelligenza Collettiva Localizzata.
L’uso delle nuove tecnologie promuovono nuovi
modelli di auto-organizzazione in cui diminuiscono gli intermediari e il peso
della rappresentatività. Da qui oggi abbiamo una opportunità completamente
nuova di ripensare una democrazia realmente localizzata.
D: In merito al
processo Dreamhamar: quali domande si è posto il team di lavoro nelle fasi di
progettazione, quali erano le necessità che avete individuato nel contesto
urbano di Hamar? Quanto è stato importante il contesto nel determinare le
vostre linee guida?
R: Difficile risponder
in modo completo. Le domande sono state moltissime e vista la lunga fase di
sviluppo del progetto, in realtà abbiamo assistito ad una continua evoluzione
delle stesse.
Potremmo cominciare dal fatto che si è
trattato di un concorso e quindi era imperativo riuscire a proporre qualcosa
che fosse certamente innovativo e forse anche insolito pero che allo stesso
tempo fosse credibile e fattibile.
Il concorso girava attorno alla
risignificazione della piazza Stortorget, una delle principali piazze della
città di Hamar (Norvegia), all’epoca utilizzata quasi esclusivamente come
parcheggio. Il concorso richiedeva un intervento “artistico” che potesse ridare
una identità più forte alla piazza.
Dietro questo punto di partenza in realtà il
bando del concorso specificava tutta una serie di obiettivi che a noi
sembravano difficilmente raggiungibili con un “semplice” intervento artistico.
Nel bando, infatti, non si parlava di
progettare una nuova piazza ma letteralmente di creare un’opera d’arte.
Tuttavia gli obiettivi dell’amministrazione
erano molto ampi. Quest’ opera artistica avrebbe dovuto essere capace di ridare
identità e forza alla piazza ma anche a tutta la città e comunità locale. Tra
le altre cose, questa “opera” avrebbe anche dovuto aiutare a trattenere i
giovani in città ed evitare che emigrassero verso città più grandi.
Quindi la prima domanda era: come facciamo ad
ottenere qualcosa di così difficile da un semplice oggetto? Il concorso sembra
effettivamente orientato alla concezione di un oggetto particolare da porre
nella piazza; mentre era già in programma un concorso per la progettazione
della nuova piazza, in cui sarebbe poi stato chiesto di tener in conto l’opera
d’arte che sarebbe risultata vincitrice del precedente concorso.
Un’altra importante domanda é stata sulla
natura stessa dello spazio pubblico in un paese e soprattutto una piccola città
con un modello di vita poco urbano, chiaramente sviluppato intorno allo sprawl
suburbano. Un altro importante problema riguardava la necessità di promuovere
una visione diversa della città che fosse sufficientemente convincente e
attrattiva da far accettare ai residenti la possibilità di rinunciare alla
comodità del parcheggio sotto casa o a pochi metri dall’area commerciale del
centro urbano?
A nostro avviso, visti i presupposti sembrava
sempre più “ovvio” e normale promuovere un processo piuttosto che un prodotto.
E’ per questo che alla fine la nostra proposta è stata la programmazione di un
processo di un anno e mezzo in cui avremmo avuto la possibilità di lavorare con
la cittadinanza e con esperti locali ed internazionali, organizzandoci intorno
ad attività presenziali ed on-line e con un carattere glocale.
Tra le necessità che avevamo individuato
c’era senza dubbio quella di coinvolgere la cittadinanza nel progetto, per
evitare il classico fenomeno che vede un’operazione urbana atterrare su un
territorio senza nessun confronto pubblico con i residenti.
Allo stesso modo, visto il carattere
provinciale della piccola cittadina ci sembra importante generare una dinamica
che potesse dare una maggiore proiezione della realtà locale verso l’esterno e
allo stesso tempo utilizzare una dinamica innovativa che potesse posizionare a
livello mondiale questa piccola città sconosciuta ai più.
Naturalmente il contesto é stato più che
determinante. Oltre agli elementi già menzionati c’è da aggiungere che la
piazza è configurata dalla presenza di un edificio di proprietà del comune, uno
dei pochi con valore storico e con un progetto per la realizzazione di un
importante centro culturale su un lato della piazza.
Nella descrizione del contesto rientra anche
l’iniziale titubanza da parte dell’amministrazione comunale che nonostante la
nostra proposta fosse risultata vincitrice del concorso non sembrava disposta a
procedere con l’affidamento dell’incarico, perché non del tutto convinta della
proposta, per cui c’è stato un lungo periodo di dialogo prima di poter avere un
contratto ufficiale che ci permettesse di cominciare i lavori.
Altro elemento rilevante è stato senza dubbio
la prossimità delle elezioni per il rinnovo del consiglio comunale, che in
seguito ha provocato non pochi cambiamenti al processo a causa della volontà
politica di accelerare per poter avere risultati spendibili prima delle
elezioni.
STRATEGIE
DI COINVOLGIMENTO DELLA COMUNITA’ E DEGLI STAKEHOLDERS LOCALI:
D: Ci sono state
fasi di outreach per definire i
destinatari del processo partecipativo locale?
R: Ci sono state
diverse fasi di outreach. Come dicevo, in realtà prima di poter cominciare i
lavori c’è stata innanzitutto una fase di dialogo con l’amministrazione
comunale che non sembrava del tutto convinta della fattibilità e buona riuscita
della nostra proposta. Per poter avere una conferma definitiva era
necessaria una delibera ufficiale del consiglio comunale con il consenso di una
sorta di assemblea pubblica alla quale partecipano i rappresentanti delle
organizzazioni cittadine più importanti del territorio. Ognuno di questi
rappresentanti può esprimere la sua posizione favorevole o contraria. La giunta
prende in seria considerazione la posizione di questa assemblea cittadina.
Per poter cominciare i lavori é stato quindi
necessario ottenere il favore di questa assemblea.
Durante diversi giorni abbiamo avuto riunioni
con tutti i gruppi politici e con tutti i rappresentanti dell’assemblea
cittadina. Abbiamo spiegato loro le grandi opportunità del progetto e chiarito
qualsiasi dubbio che avessero.
Fortunatamente siamo riusciti ad ottenere
l’appoggio dell’assemblea cittadina e quindi della giunta.
Per la fase successiva è importante dire che
abbiamo ottenuto prima un piccolo ufficio nel comune e poi uno spazio
nell’edificio storico di proprietà del comune presente sulla piazza stessa. In
questo modo abbiamo potuto cominciare a lavorare con le organizzazioni locali
comprese le scuole per far conoscere il progetto e poter cominciare a
pianificare attività con diversi stakeholders della città.
Per migliorare e potenziare il processo due
persone dello studio si sono trasferite sul post mentre altre si alternavano
per offrire supporto nei momenti piú intensi, specialmente nella fase iniziale
e finale. Allo stesso tempo da Madrid lo studio continuava ad offrire supporto.
Sul posto inoltre abbiamo ingaggiato alcune figure molto importanti,
innanzitutto un giornalista che si occupasse della comunicazione e delle
relazioni con i giornali locali e poi degli educatori e mediatori che ci
accompagnassero nelle relazioni con le diverse organizzazioni e con la
cittadinanza. Questi mediatori avevano anche il compito di coordinare workshop
ed attività collettive. Ci sembrava essenziale avere nel team professionisti
del posto.
Una volta organizzato tutto il team e chiarita
la volontà politica dell’amministrazione c’è stata una riorganizzazione del
calendario delle attività.
D: Come è stata
progettata l’inclusione nel processo? Dunque: chi ha partecipato, e in quanti
(e su che bacino di utenza potenziale)?
R: Per migliorare ed
ampliare al massimo l’inclusione nel processo abbiamo lavorato considerandolo
sempre come il risultato di diverse azioni e dinamiche che avvenivano
simultaneamente sia su un piano fisico che digitale.
Ci sono moltissimi fattori che abbiamo attivato.
Cominciamo dalla nostra presenza fisica sulla
piazza. Appena arrivati abbiamo chiesto al comune la possibilità di utilizzare
uno dei vani rimasti senza uso dell’edificio storico presente nella piazza su
cui stavamo lavorando. Durante circa un mese abbiamo lavorato in prima persona
per poter trasformare con un approccio low cost lo spazio che anteriormente era
un negozio di bici. Ne abbiamo ricavato quello che abbiamo chiamato il Physical
Lab: un ufficio di lavoro, uno spazio di esposizioni e un’area per i workshop.
E’ stato importantissimo offrire questa visibilità diretta. Non bisogna
dimenticare che noi eravamo stranieri e per giunta mediterranei, cosa che per
una parte della popolazione costituiva elemento di dubbio sulla nostra
effettiva idoneità a lavorare in un contesto completamente diverso da quello
delle nostre origini. Questo spazio è rimasto sempre aperto e ha offerto una
garanzia di trasparenza sempre visibile.
C’è poi da citare l’inteso lavoro fatto con
le scuole, i bambini e i professori che ha generato un enorme ritorno in
termini di relazione e diffusione del processo, con una esposizione dei lavori
realizzati dai bambini sempre accessibile nel nostro spazio aperto sulla
piazza.
Grazie al lavoro previo realizzato con le
diverse organizzazioni e gli stakeholders locali per ottenere l’appoggio che
permettesse l’inizio dei lavori abbiamo potuto contare con una amplia
collaborazione che ci ha permesso di organizzare diverse attività in diversi
luoghi, ampliando la visibilità e l’inclusività.
C’è da aggiungere l’elemento digitale e la
visione glocale di tutto il processo.
Cominciamo dal secondo.
Secondo la nostra esperienza, le comunità per
sua stessa natura tendono a chiudersi; si caratterizzano per avere le sue
proprie dinamiche ed equilibri e tendono ad opporsi agli elementi nuovi che
provano a cambiarle. Per questo motivo ci sembra interessante poter introdurre
elementi esterni, in modo da ampliare la capacità di immaginare soluzioni
nuove. In questo progetto abbiamo introdotto diversi elementi esterni come una
rete di università ed un programma di laboratori online che potesse arricchire
con nuove proposte il processo in che invece avveniva in loco.
La rete di università si basava sulla
partecipazione e la connessione con una serie di corsi di progettazione in
diversi paesi europei che hanno dedicato il loro lavoro alla piazza Stortorget
di Hamar. Alcuni di loro sono riusciti incluso a visitare la piazza e a
partecipare a delle azioni di mockup. Per tutti, naturalmente, vista la
distanza il punto di riferimento era rappresentato dalle informazioni scambiate
e pubblicata nel DIgital Lab, cioè la piattaforma online dove confluivano tutte
le info sull’andamento del processo.
La nostra presenza online si appoggiava su un
blog in cui informavamo costantemente sull’andamento dei lavori: http://dreamhamar.org
L’elemento forse più innovativo di questo
nostro lavoro di informazione online è stata sicuramente la programmazione
costante durante tutti i lavori di sessioni in videoconferenza in cui
presentavamo in diretta streaming le diverse fasi e protagonisti delle
attività. Questa modalità permetteva anche la possibilità a qualsiasi
spettatore di poter porre delle domande in diretta.
C’è da aggiungere poi che oltre ai contributi
delle diverse università c’erano i quelli dei partecipanti ai laboratori che
abbiamo sviluppato online grazie alla collaborazione di alcuni professionisti
che ne hanno coordinato i lavori.
E’ bene specificare che da Madrid c’era una
persona interamente dedicata alla comunicazione per il blog ed un’altra che si
occupava di coordinare tutte le attività del Digital Lab.
No saprei dare dei numeri riguardo alla
partecipazione. Alcune attività e workshop hanno avuto una partecipazione più
massiccia che altre. A mio avviso un elemento rilevante é stato il
conivolgimento reale della cittadinanza in una dinamica di ri-immaginazione
della piazza. Il processo è stato chiaramente presente durante mesi nell’agenda
pubblica e possiamo dire che la maggior parte della cittadinanza era
consapevole del processo.
D: Esisteva già una comunità di riferimento locale o è stato necessario progettare anche uno specifico processo di community-making?
R: Il problema è ancora una volta la scala di referenza. Come dicevamo Hamar è una città con una grande area suburbana che ha una scarsa relazione con il centro urbano. Una buona fetta dei sui abitanti non si interessa alla piazza, visto che la considera unicamente come il luogo in cui una volta all’anno si festeggia la festa nazionale. I vicini invece sono naturalmente molto più attenti alle sorti della piazza, ed al “parcheggio”. Quindi diciamo che esisteva già una comunità pero solo con carattere iper-locale per cui abbiamo dovuto lavorare per coinvolgere il resto della cittadinanza. Come dicevamo il lavoro é stato semplificato grazie alla presenza sul territorio di diverse organizzazioni.
D: Come avete innescato, alimentato e valutato in fase d’opera la connettività nel territorio? Quali strumenti avete utilizzato per ampliare il dibattito pubblico ed elaborare le linee guida del processo?
R: Il punto di partenza è stato il lavoro con le scuole. Ci ha permesso di confrontarci con moltissimi genitori in modo informale, aprendo le porte alle successive attività organizzate con diverse entità locali. Si è trattato di un lavoro di “conquista” della fiducia dei cittadini, stando sempre molto accorti alla relazione con le persone che di volta in volta si interessavano al progetto.
Più che di strumenti all’uso abbiamo basato il processo su un ecosistema di attività che è riuscito a coinvolgere la cittadinanza anche grazie alla nostra continua preoccupazione di comunicare cosa stavamo facendo e perché. La trasparenza è stata essenziale.
D: Parlando del Physical Lab e delle Azioni Urbane è interessante capire come sono stati realizzati i mock-up in scala 1:1, sia per quanto riguarda i materiali utilizzati che per le procedure di gestione delle convergenze e dei conflitti.
R: Come dicevo, il
Physical Lab è stato molto importante. Un elemento di trasparenza e
rappresentazione diretta di un processo che era una grande novità per la città.
Questo spazio ricordava continuamente il processo in corso, ospitava eventi e
offriva a tutti i cittadini la possibilità di venire a conoscere coloro che
stavano coordinando un processo così insolito ed innovativo.
I mockups hanno avuto un ruolo essenziale per
la promozione e la visualizzazione da parte della cittadinanza di nuovi
possibili scenari per la piazza. Come dicevo uno dei principali ostacoli per la
riconfigurazione della piazza era poter abbandonare la visione della stessa
come un parcheggio, è per questo motivo che il primo mockup è stata un
intervento di arte pubblica da parte dei Boa Mistura che sono riusciti ad
aprire tutto un mondo di scenari grazie alla semplice verniciatura del suolo della piazza con colori e pattern
tipici della cultura norvegese. Un modo semplice e tremendamente efficace per
lasciare alle spalle la visione del parcheggio e aprire a nuovi immaginari.
Ce ne sono stati diversi di mockups, tutti a
basso costo e con grande impatto visivo, riutilizzando materiali e pensando in
modo accurato alla gestione di tutte le fasi: prima, durante e dopo. Si
trattava naturalmente di interventi temporanei, pero è stata nostra premura
evitare che si vedessero come una riproduzione scadente della realtà, ma
piuttosto come l’opportunità per usare la piazza in modo diverso anche se solo
per qualche giorno e ampliare l’immaginazione della cittadinanza. Sono stati
chiaramente anche la scusa perfetta per celebrare il processo stesso e
raccogliere i cittadini intorno ad eventi festivi del tutto insoliti, non
associati cioé alle tipiche e tradizionali feste locali.
DALL’AZIONE
LOCALE ALLA CONNETTIVITA’ GLOBALE (INTERAZIONI/INTEGRAZIONI/IBRIDAZIONI
CON GLI STRUMENTI DELLA NETWORK SOCIETY):
D: Parliamo del
Digital Lab: come avete codificato e tradotto i risultati quali ‘spazi di
condivisione’ delle proposte on-line? quali strategie transmediali sono state
adottate per configurare la comunicazione nel Digital Lab? quali le strategie
di aggregazione degli input? come è stata condotta la valutazione delle
proposte, ovvero: come portare off-line quanto raccolto on-line?
R: E’ innanzitutto
necessario chiarire una cosa: Dreamhamar non è un processo di partecipazione
pubblica. Penso che sia importantissimo chiarire questa cosa. Non si è trattato
di un processo in cui abbiamo accompagnato delle persone lungo un percorso di
progettazione partecipata che le avrebbe poi condotte ad una soluzione condivisa.
Si tratta di un approccio diverso.
Non parlerei quindi di “codifica” o “traduzione”,
ma piuttosto di inputs. Si tratta di capire come riuscire a gestire un processo
in cui molte persone collaborano in modo ibrido alternando attività online ed
altre offline. Il centro di snodo siamo stati noi stessi promuovendo un
processo di progettazione aperto che ha inglobato inputs che procedevano da
molti punti e con modalità diverse. Siamo stati noi stessi i traduttori degli
inputs, elaborando delle proposte che poi hanno definito un progetto
preliminare.
Detto questo si capisce meglio l’importanza
della dimensione digitale che è stata fonte di inputs ma anche spazio di
trasparenza dove visualizzare le diverse proposte e modalità di partecipazione.
D: E’ interessante
capire poi come ha funzionato la discussione sui diversi canali aperti on line:
è stata molto attiva? Avete avuto modo di verificare il rapporto tra la massa
delle interazioni on-line e la partecipazione “off-line” nel Physical Lab? Che
idea vi siete fatti della qualità connettiva della vostra proposta?
R: La partecipazione
online è stata sicuramente inferiore a quella che ci aspettavamo. Personalmente
penso che questo sia dovuto a diversi fattori. Da un lato ci aspettavamo un uso
più massiccio dei social media ed in generale di internet. In realtà ci siamo
sorpresi nel constatare che l’uso di internet per le relazioni e le
informazioni locali era molto inferiore a quello che ci aspettavamo. Allo
stesso modo canali come facebook o twitter, o l’accesso a blog locali, ancora
non erano così diffusi nelle dinamiche di uso quotidiano della rete.
Un altro fattore (negativo) importante è
stata la mancanza di un responsabile della comunicazione locale. In realtà come
ho già accennato avevamo ingaggiato un giornalista del posto, ma la relazione
di lavoro con questa persona è stata disastrosa, e la possibilità di risolvere
la questione e poter contare con la collaborazione di altre persone è stata
praticamente impossibile, in termini di tempo e risorse economiche.
Immagino che agli occhi dei cittadini ciò che
solitamente consideriamo “tangibile” sia stato considerato il risultato più
importante, tuttavia penso che la trasperenza offerta dal Digital Lab è stata
essenziale per dare credibilità a tutto il processo.
C’è da aggiungere che la dimensione di
apertura e di posizionamento del progetto in sé e della città di Hamar a
livello internazionale è stato sicuramente raggiunto, proprio grazie a
quest’approccio ibrido (digitale e materiale) e glocale (locale e globale).
Per quanto riguarda i workshop online e le
relazioni con la rete delle università coinvolte il Digital Lab è riuscito ad
offrire una piattaforma stabile e produttiva.
D: Entrando ancora di più nello specifico dell’ibridazione on-line/off-line in un processo glocale come quello di Dreamhamar ti chiederei di spiegarci come sono stati risolti eventuali conflitti o disaccordi che mi immagino saranno emersi nei social network nel momento in cui avete ‘aperto’ il processo a tutte le interazioni possibili. Avevate previsto un’attività di moderazione/facilitazione/mediazione di queste interazioni?
R: Come già accennato
in precedenza è importante tener conto che Dreamhamar non è un progetto di
partecipazione pubblica ma un processo di progettazione aperta e collaborativa.
Non è stata nostra intenzione mettere d’accordo persone con opinioni diverse ma
generare un processo ampio, trasparente ed aperto, chiaramente coordinato da
noi. Siamo stati noi gli artefici della proposta finale sulla base di quanto
avvenuto durante tutto il processo.
D: Tra gli strumenti web e digitali utilizzati, quale ritieni sia stato il più efficace? E per quali ragioni?
R: Il più efficace è
stato il nostro stesso blog che è riuscito a creare un punto di riferimento
constante per tutte le attività. Garanzia di trasparenza con un buon ritmo di
aggiornamenti.
ISTITUZIONALIZZAZIONE E RIPETIBILITA’ DEL PROCESSO DI DREAMHAMAR
R: Come raccontavo
all’inizio il rapporto con l’amministrazione è stato intenso e costante. Il
punto fondamentale è stata la convenzione ottenuta all’inizio. Successivamente
è rimasto sempre in dubbio la possibilità di passare dalla fasi di
progettazione alla vera e propria esecuzione dei lavori di trasformazione della
piazza, che alla fine sono stati assegnati ad altri.
Il sostegno dell’amministrazione è stato
costante e indispensabile, anche perché come dicevamo la stampa locale non è
stata di molto aiuto.
Un fattore molto importante, nel nostro caso
è stato l’enorme appoggio ricevuto soprattutto all’inizio dall’architetto
responsabile del comune. Questa persona ha capito fin dalla fase di concorso le
potenzialità della proposta e da un punto di vista tecnico ha fatto il
possibile per far si che l’amministrazione desse il via libera per il progetto,
visto che come già detto in realtà non era del tutto convinta.
D: Parlando del Academic Network: quali sono state le motivazioni che vi hanno spinto ad estendere il processo di Dreamhamar al mondo accademico? In che modo si è configurata la partecipazione delle Università coinvolte (obiettivi, modalità e finalità)?
R: Ho già accennato alle
ragioni di questo Academic Network. Innanzitutto si tratta di riuscire ad
introdurre una dimensione glocal al processo, introducendo nelle dinamiche di
una piccola località degli inputs da studenti di diversi paesi europei. C’è poi
un interesse per la sperimentazione di nuove dinamiche di apprendimento e
ricerca che possano finalmente trovare nella partecipazione a processi reali la
possibilità di amplificare e migliorare la relazione dell’Università con la
società, allontanandola da quell’isolamento che sempre più sembra
caratterizzarla.
La rete si è configurata grazie alle
relazioni che Ecosistema Urbano aveva con professori di diverse università.
Quindi come sempre, la rete più che istituzionale è umana, nata e consolidata a
partire dalla volontà e la visione di professori che voglia ed energia per
sperimentare ed innovare.
D: Vorrei concludere
tornando al frame culturale che si sta sviluppando oggi attorno ai rapporti tra
comunità, partecipazione, ICT e città (mi riferisco anche alla piattaforma che
hai recentemente attivato http://civicwise.org/): ritieni che siamo
in una fase di ricerca&sviluppo di nuove strategie di pianificazione attraverso
nuove modalità (come i civic laboratories di cui parla Townsend) o si tratta
(più semplicemente, forse) di un nuovo tipo di attivismo comunitario? Quanti di questi ‘prototipi’ potranno venire
codificati (recepiti e adottati) dalle istituzioni (università incluse)?
Ritieni che Dreamhamar sia uno di questi e che potrebbe essere replicato?
R: Ritorno a quanto
dicevo all’inizio. Si tratta di ritornare a dare forza e valore ad ogni singolo
cittadino. Questo significa lasciarci dietro la visione della cittadinanza
formata da gruppi omogenei. Dobbiamo invece tenere in considerazione l’idea di
Multitudine che Hobbes definiva come qualcosa che rimane nella
diversità/pluralismo e decentramento evitando l’idea del corpo unico che invece
richiama il concetto di Popolo.
E’ proprio in questa idea di Multitudine che
diventa determinante un uso innovativo ed intelligente delle nuove tecnologie
di comunicazione, perché ci aiutano ad aumentare la trasparenza e a ridurre gli
intermediari.
La sfida pero, va detto, non è tecnologica ma
culturale e politica.
Spesso giriamo attorno ai nuovi gadgets e
nuove tecnologie come una tribù, danzando intorno al dio fuoco, senza poi
capirne realmente le possibilità.
E’ importante impadronirsi della tecnologia e
non esserne semplici consumatori. L’attuale configurazione Economica e Politica
promuove invece un atteggiamento passivo nei confronti di tali innovazioni. E’
per questo che a mio avviso è necessario rafforzare l’approccio che da anni
viene promosso dalla etica hacker. E’ necessario cioè promuovere dinamiche e
spazi che creano le opportunità per la cittadinanza di ri-significare queste
tecnologie, impadronirsene ed utilizzarle per la promozione di attività e
progetti pensati per il bene comune. Non si tratta di buonismo ma di buon
senso.
E’ questo uno degli
obiettivi della piattaforma CivicWise di cui sono promotore: creare una
struttura digitale al servizio di una comunità con carattere Glocale, cioè una
comunità che si costruisce e si organizza in modo globale, scambiando informazioni
e conoscenza sempre globalmente, ma agisce localmente con azioni dirette nel
territorio.
La comunità CivicWise è formata da quella che
chiamiamo Cittadinanza Attiva, cioè persone che si attivano per migliorare la
qualità del territorio in cui vive. L’obiettivo del progetto è offrire a questa
cittadinanza un maggiore riconoscimento e visibilità, in modo da poter essere
protagonista delle politiche di gestione del territorio, non solamente come
“volontari” ma anche come “prosumers”, cioè attori del territorio in qualità di
“co-produttori” delle sue politiche e non semplici “utenti”.
In questo senso è interessante la possibilità
di pensare nuovi spazi civici.
Le nuove tecnologie di comunicazione
sicuramente hanno promosso e semplificato la comunicazione tra persone con
interessi comuni. I modelli di comunicazione hanno raggiunto una dimensione
sempre più simile a quella naturale, passando dalle email fino all’enorme
capacità che abbiamo oggi di parlare in video-conferenza da qualsiasi
smartphone. Tuttavia è fondamentale pensare alla necessità di spazi fisici dove
potersi incontrare.
Con la mia ricerca di dottorato é mia
intenzione dimostrare che l’auge della sfera digitale promossa dalle nuove
tecnologie, contrariamente all’ opinione di alcuni esperti, soprattutto di
qualche anno fa, non aumenta l’isolamento delle persone nelle proprie case, ma
al contrario apre a nuove dinamiche di incontro sociale, per motivi di natura
professionale, culturale, sociale o semplice svago.
I cittadini già si stanno muovendo in questo
senso promovendo nuovi spazi di produzione collettiva come possono essere gli
hacklabs o fablab, o civic lab soprattutto negli Stati Uniti e in Gran
Bretagna.
Attraverso il progetto CivicWise, stiamo
promovendo la sperimentazione di un nuovo modello di Spazi Civico. Si tratta di
uno spazio in cui proviamo ad eliminare i tipici meccanismi di rappresentanza,
cioè anche se è pensato come punto di incontro di persone provenienti dal mondo
delle ong, delle università, dell’amministrazione pubblica, delle imprese e
vicini di quartiere, in realtà l’idea è che nessuno partecipa come
rappresentante della sua categoria, ma semplicemente mette a servizio di tutti
la sua esperienza, conoscenza e capitale relazionale, con l’obiettivo di
sviluppare progetti civici che possano avere un impatto forte sul territorio e
soprattutto essere inseriti in un processo continuo e sostenibile nel tempo.
Per finire, vorrei insistere nella urgente
necessità delle università di entrare ed offrire un servizio diretto e reale
alla società partecipando a questo tipo di progetti ed attività. Purtroppo
siamo ancora lontani, ma qualcosa si muove. Spesso sono singole persone,
ricercatori e professori che autonomamente si avvicinano a queste dinamiche
aprendole così anche a studenti ed altri ricercatori.
Il caso Dreamhamar è sicuramente un’ottima
referenza ma si possono pensare a progetti anche a scala più ridotta,
promovendo un maggiore coinvolgimento di studenti e ricercatori, perché non
lavorino solamente sul territorio, ma si confrontino direttamente con la
società partecipando attivamente alle attività che la Cittadinanza Attiva
promuove. Questo crea un circolo virtuoso, dando più forza ad entrambi:
cittadini ed università.
Il modello che proponiamo con CivicWise va
proprio in questa direzione. Vogliamo offrire una piattaforma che semplifica e
promuove questa relazione costante, quindi non solamente basata su progetti
specifici. L’obiettivo è di riuscirci creando una comunità veramente ibrida,
quindi composta realmente da cittadini, siano essi professionisti o meno della
gestione urbana.
In tal senso è necessario pensare ad un nuovo
modello di gestione urbana che possiamo definire, come dicevamo, una gestione
condivisa, dove i cittadini possono materialmente collaborare, senza la
necessità di organizzarsi intorno a figure legali formali. In tal senso
dovremmo considerare l’amministrazione locale come una Estituzione, cioè una istituzione che è capace di aprirsi a
persone, agenti, programmi e politiche che vengono promosse e sviluppate
dall’esterno della stessa.
Un esempio a scala ridotta è quello che
succede nel centro culturale Centquatre (104) a Parigi che si è ritrovato
letteralmente invaso da un ingente numero di giovani che ogni giorno usavano il
loro atrio principale come spazio per allenarsi collettivamente con attività di
Street Dance. Si trattava di qualcosa che non era per niente previsto, però chi
gestisce il centro ne ha capito le potenzialità e invece di frenare questo
fenomeno lo ha incoraggiato, fornendo strutture apposite per questa specifica
attività di allenamento.
Ecco abbiamo bisogno di amministrazioni di
questo tipo: Estituzioni quindi!
Al contempo dobbiamo aiutare la cittadinanza
e implementare la sua capacità di organizzarsi al di lá dei tradizionali schemi
formali di rappresentatività, promuovendo processi di Adhocrazia, dove ci si
preoccupa meno di creare strutture organizzative permanenti e molto di più di
promuovere dinamiche di Intelligenza Collettiva centrate sul raggiungimento di
un obiettivo concreto.
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