Abbiamo verificato come la città sia un tema che accentra discipline e questioni progettuali di scala eterogenea (la casa e il centro commerciale, il nostro qui e il ‘qui’ dell’altro, il luogo reale e il luogo virtuale): tutto rientra nell’orizzonte del cittadino (inteso come attributo e come nome comune). La spiegazione trae spunto dalla doppia etimologia di città dal latino civitas (ovvero formata dai cives, i cittadini) e dal greco polis (ovvero ciò da cui traggono il proprio nome i polites, ovvero i cittadini): città e cittadini sono entità contemporanee e con-causali. Se sussista o meno un reale rapporto di biunivocità per il quale a mutati cittadini corrisponda una mutata città (e viceversa) non è dato saperlo, ma tutte le discipline urbane e sociali lo sperano più o meno evidentemente.
La nostra cultura, infatti, tende a generare discipline per le quali si possano costituire sistemi di saturazione di senso e attraverso di essi colmare il più possibile il campo dello scibile. La biunivocità tra città e cittadini, secondo la prassi antropologica, porterebbe a definire in modo esauriente la rappresentazione di entrambi, col risultato notevole di comprendere la realtà (anche per fini progettuali e non solo conoscitivi).
Noi viviamo così immersi in un dominio della correlazione di causa ed effetto che il concetto di nonluogo, in tutta la sua problematica esistenza e incommensurabilità con i luoghi, viene ad essere considerato semplicemente l’etichetta per quanto non rientra nella parte buona della città. In realtà, come abbiamo cercato di render chiaro, il nonluogo esiste e non è certo la banale negazione del luogo: esso indica innanzitutto il fatto che l’agognata saturazione dello schema descrittivo della città secondo le sue funzioni non è stata raggiunta, e anzi si è allargato ulteriormente il gap tra la realtà urbana e la sua rappresentazione (lo sapevamo già con Goedel che la saturazione del sistema descrittivo non era possibile, tuttavia per le scienze a grande scala come l’urbanistica eravamo disposti a chiudere un occhio…).
L’urbanistica, come altre discipline che prediligono per ragioni costitutive la quantificazione dei fenomeni piuttosto che la loro qualificazione, ha assunto come principio e fine un uomo-cittadino-società di tipo bidimensionale, ovvero caratterizzato da comportamenti spaziali e temporali. Sullo spazio-tempo si è ridotto l’abitare all’occupare (appunto spazi e tempi), mentre la città è stata tradotta in un recinto suddiviso tassonomicamente per funzioni e dotata di uno o più centri. L’occupare è stato dunque articolato funzionalmente secondo le sue funzioni temporali:
- Dormire -> residenza
- Mangiare ->residenza/ristorazione
- Lavorare ->zone industriali/zone direzionali
- Transitare ->infrastrutture/stazioni di scambio modale
- Relax ->distretti del piacere (Bonomi)/parchi cittadini/intrattenimento e spettacolo/residenza
In tal senso l’occupare ha ridotto l’uomo ad essere un fruitore/consumatore, completando così l’altra faccia della medaglia dell’economia politica: il consumatore e la merce costituiscono (INSIEME) uno schema perfetto. Nel mezzo troviamo una zona di interfaccia in cui risiede l’immaginario, elemento potentissimo in grado di dare vera compiutezza ai due lati dello schema. La nostra intenzione è di trattare di questo immaginario a conclusione dei nostri incontri.
L’occupazione dell’immaginario.
Perché soffermarsi sull’immaginario? Secondo alcuni esso costituisce la base stessa della condivisibilità delle nostre azioni, in esso risiederebbero dunque anche quegli archetipi che ci rendono comprensibile il mondo in modo univoco (il cinema, l’arte, la televisione e l’architettura spesso fanno ampio uso di questi archetipi, come il recinto, l’isola, la capanna, la tenda, il vecchio, il bambino innocente, e così via). Il tardo capitalismo ha compreso che l’immaginario poteva influire direttamente sul desiderio ed esso poteva poi essere utilizzato per ampliare lo spettro dei bisogni umani e dunque la possibilità di nuovi prodotti (cellulari, macchine, profumi, bevande, ecc…).
Stessa sorte ha riguardato la città e la sua trasformazione in merce culturale: la museificazione e la monumentalizzazione hanno tentato di codificare attraverso il meccanismo della salvaguardia quelle parti di città funzionalmente inutili, riconoscendo in esse elementi necessari per l’occupazione completa dello spazio e del tempo. Paradossalmente questa occupazione è avvenuta mediante un processo distraniamento (il monumento non appartiene direttamente all’uso della città, è un’anomalia tollerata o un fuori scala disurbano).
Al contrario i nonluoghi sono perfettamente inseriti nello schema funzionale della città, essi appartengono (più di tutti) all’occupazione dello spazio e del tempo (ne fanno un ottimo uso, addirittura li addensano). Ma sia i monumenti che i nonluoghi (per ragioni diverse) fanno riferimento all’immaginario per relazionarsi con la città.
Di fatto il monumento appartiene ai cittadini ma si protende verso l’ambito della merce culturale, mentre il centro commerciale appartiene al mondo della merce ma allude alla sfera dei cittadini.
A questo punto dobbiamo comprendere che il paradigma di lettura e progetto di una città è il vero scopo delle nostre riflessioni, e che la formazione di tale paradigma non solo deve essere continua (ovvero non sclerotizzarsi in assunti pre-concetti) ma deve anzitutto riferirsi all’immaginario come fonte poetica, ovvero del fare. Se ci ripetiamo la domanda: come costruire città felici? possiamo ora comprendere che la risposta non va ricercata solo nello schema funzionalista (secondo cui avevamo auspicato, di primo acchito, alla realizzazione di emergenze autonome derivanti dallo sviluppo delle reti sociali, in grado si rifunzionalizzare la città a partire dal basso e operanti in modoorizzontale), ma anche al di fuori di esso, in quell’immaginario che, a ben vedere, non appartiene né allo spazio, né al tempo ma all’uomo.
Dunque oggi, in questa nostra seconda e ultima occasione di incontro sul tema della città, tenteremo di vedere le cose al di fuori dello schema funzionalista, introducendo una riflessione sulle poetiche dello spazio. La storia della nostra civiltà è costellata dei frutti dell’immaginazione poetica, ovvero quella facoltà umana che il funzionalismo ha contenuto ed esiliato in ciò che il senso comune chiamaarte, ma che costituisce la ragione stessa di quel materiale urbano ed umano che il funzionalismo non è riuscito a codificare.
Alcuni hanno definito questa parte non codificata della nostra cultura come altra modernità, la cui chiave di lettura non è più la forma astratta ma la figura significante. Sotto questa chiave di lettura è possibile allora riavvicinarci (come soggetti e come autori) alla città e ai suoi palazzi, ma anche ai suoi ipermercati e aeroporti, poiché il senso del luogo non sarà più interno al luogo, ma interno al soggetto, sempre che assuma piena coscienza della sua necessaria partecipazione. In questo senso comprendiamo le parole di Augè quando descrive i nonluoghi come i luoghi di uno spettacolo senza ritualità, nel quale i soggetti divengono semplici spettatori della mercificazione del mondo. La chiave risiede dunque nel soggetto e non nel nonluogo.
Immaginare le città.
Rileggendo la Storia dell’Utopia di Mumford e la sua positiva disillusione (attraversa le due guerre mondiali) riscopriamo le diverse stagioni dell’esercizio dell’immaginazione legata alla città e ai suoi cittadini, dalla Repubblica di Platone in poi. L’occasione per misurarsi con l’alterità è sempre stata foriera di riflessioni notevoli, anche per la ragione che vuole ogni utopia come un ulteriore sistema di senso saturo: la geografia, la politica, l’economia, la religione, l’organizzazione sociale, l’urbanistica e l’architettura devono potersi compenetrare e giustificare reciprocamente. E’ la medesima operazione che si compie in letteratura (dal
mondo immaginario di Tlőn di Borges alle Città Invisibili di Calvino), ma anche nel cinema (da Metropolis del 1923 ad Avatar del 2010). Ogni rappresentazione deve essere strutturalmente completa, e l’utopia è il massimo esercizio di questa rappresentazione. Ulteriore ragione per rivolgersi alla pratica del pensiero utopico è il neologismo coniato da Foucault nel suo Des espaces autres del 1967, ovvero eterotopie, le quali sono “quegli spazi che hanno la particolare caratteristica di essere connessi a tutti gli altri spazi ma in modo tale da sospendere, neutralizzare o invertire l’insieme dei rapporti che essi designano, riflettono e rispecchiano”. Le eterotopie sono l’esperienza dell’alterità senza l’Altro, o, meglio, della molteplicità dell’io attraverso la molteplicità del qui. Un esempio su tutti: lo specchio.
Utopie ed eterotopie ci rendono più consapevoli del fatto che l’alterità che impregna i nonluoghi (e che ci impedisce quella partecipazione all’identità collettiva che il luogo invece ci dà) è una chiave di accesso al possibile, per lo meno dal punto di vista poetico. Ogni eterotopia sposterà la nostra attenzione dallo spaziotempo all’immaginario.
Analogamente ogni incontro tra arte e architettura genera eterotopie, attraverso la non-funzione dell’arte. Attraverso alcuni esempi e letture di utopie e opere di arte-architettura affermeremo quanto la città felice dipenda da cittadini che si assumano la responsabilità primaria diimmaginare la propria città. E in quest’atto assoluto verranno mescolate quelle qualità nascoste che rientrano di volta in volta negli scaffali della memoria, della nostalgia, dell’appartenenza, della speranza, dell’inconscio collettivo, della progettualità per il futuro.
Riuscire ad immaginare la propria città significa anche ipotizzare piccole e grandi azioni sulla città esistente, e,in nome di essa, costituire adeguati sistemi di valore.
(E.Lain 2010, per la Scuola del Legame Sociale di Padova, Modulo 'Il territorio come fucina di nonluoghi')
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