Nel post Collettivo#01 ho incluso architettura, tecnica, composizione, corpo, tentando di mostrare come gli ibridi in architettura, per quanto fragili e prototipali (come il recente Steam Ring Generator proposto da BIG Architecture per Copenhagen) costituiscano un primo sintomo del ruolo mediale dell'antropos nel panorama contemporaneo.
Foto dalla conferenza di Kyoto, 1997. |
Come ci ricorda Latour, l'incontro di Kyoto del 1997 ha mostrato al mondo che occorreva ricostruire il mondo. Ma la vera emergenza non era tanto l'estinzione (rispetto alla quale non abbiamo fatto quasi nulla, per le ragioni che vedremo qui di seguito) quanto il fatto che le discipline e i poli della modernità (Scienza e Politica) non erano più in grado di progettare e comprendere il mondo in modo efficace.
Nel 2008, accadrà anche ad Alan Greenspan (allora direttore della Federal Reserve, convinto neoliberista) di ammettere, di fronte al Commitee on Oversight and Government Reform della Camera bassa del Congresso USA, "... ho trovato una pecca nel modello che consideravo la struttura di funzionamento cruciale che definisce come va il mondo (...)". Questo errore ha prodotto la più grande crisi finanziaria mondiale dal 1929. Il fatto più interessante è che siamo abituati a considerare le scienze e le discipline come paradigmi distinguibili mentre assistiamo (al contempo) a letture improprie della realtà fatte da paradigmi egemoni (come è accaduto per l'entropia o per l'homo oeconomicus propugnato da Gary Becker), e la cosa non ci scandalizza.
Torniamo a Kyoto, ora. Per la prima volta a Kyoto si è realizzato l'impensabile:
- raccogliere in un'unica assemblea la Scienza (in rappresentanza della Natura) e la Politica (in rappresentanza della Società)
- dare ascolto anche ai non umani (il buco dell'ozono, i cambiamenti climatici, l'energia, la CO2, ecc...) per mezzo (anche) di tecniche di democrazia partecipativa (come il Confronto Creativo). Questo punto è interessante, poiché rappresenta una valida alternativa al Confronto Parlamentare, basato invece sul diritto di parola. Sembra che i non umani non abbiano bisogno di avere parola quanto piuttosto di avere ascolto. A Kyoto sembra si siano consapevolmente piantati i semi del mondo futuro, delle nuove alleanze, dei nuovi assemblaggi e dei nuovi collettivi.
Kyoto ha mostrato come per cambiare il mondo occorreva cambiare il modo di cambiare. La ricostruzione di una civiltà con un futuro (o, se preferite, di una ecologia politica dei collettivi di umani e non umani) passa per una nuova articolazione dei rapporti tra valori, fatti, assemblee e cose.
Come avrete notato abbiamo appena mescolato differenti ambiti semantici: quello delle economie (valori), con quelli delle scienze (fatti), della società (assemblee) e della tecnica (cose).
Come accadeva per il Collettivo#01, anche qui possiamo tentare di convocare, in un ulteriore Collettivo#02, gli 'oggetti' di queste semantiche. Per i valori convocheremo l'urbanità (nel senso datole da Henry Lefebvre), per le scienze convocheremo le norme, per la società chiameremo le funzioni e per la tecnica le reti.
In questo Collettivo#02 si dibatterà, tra umani e non umani, principalmente di come, nelle smart city, si possano articolare nuove nature, nuove tecniche, nuove norme e nuove funzioni. Una parte del Collettivo#02 (l'urbanità) sosterrà certamente il ruolo centrale (nel senso di mediale) dell'umano.
Quello che dovremmo fin da subito sottolineare è che ai non umani spetta un ruolo altrettanto importante, e che dagli equilibri nel rapporto tra cittadini e tecniche (ubiquos computing, reti wireless, apps, ecc...) dipenderà molto della futura forma urbana. Da Kyoto, le smart technologies hanno preso il carattere di emergenza (con un rapido susseguirsi di 'punti di non ritorno' ecologici, oltre i quali non sarebbe possibile garantire il self-healing del pianeta), principalmente per garantirsi numerosi investimenti e nuovi mercati planetari.
Ecco qual'è il punto di emissioni di CO2 al 2012:
Ebbene, Anthony Townsend, nel suo splendido Smart Cityes - big data, civic hackers and the quest for a new utopia (2013), dopo aver indagato fenomeni a tutte le scale (dal villaggio alla megalopoli) e nei principali contesti del pianeta, pone alcune serie questioni sulle smart technologies, e ve le riassumo qui di seguito:
- le tecnologie smart potrebbero non garantire abbastanza efficienza. Basti pensare alla crescita esponenziale della richiesta di energia elettrica da parte delle metropoli più avanzate (la richiesta globale di energia è cresciuta del 50% dal 1980 al 2005, e il trend indica che crescerà di un ulteriore 50% entro il 2030). Anche ad Amsterdam (leader nella sostenibilità urbana) le emissioni di CO2 ancora crescono dell'1% all'anno (Townsend, 2013). Naturalmente le tecnologie smart sono esse stesse causa della crescita nella domanda di energia elettrica. Pare infatti che rispetto ad una concentrazione di 280 mila parti per milione (soglia pre-industrializzazione) siamo arrivati a 400 mila parti, con 31,6 miliardi di tonnellate di CO2 emesse in atmosfera nel solo 2011. Per questo assume un senso civico (oltre al coup du teatre del mirabolante arch. B. Ingels) il cerchio di vapore che sarà emesso nei cieli di Copenhagen dalla ciminiera dell'inceneritore. Progettato da BIG, sarà una monito per i cittadini, poiché rappresenterà l'emissione di 1 tonnellata di CO2 nell'atmosfera della città;
- le tecnologie smart potrebbero creare conurbazioni a rischio di implosione sociale (aumento di criminalità, ecc..), implementando l'appeal urbano per le popolazioni suburbane. La questione demografica (e le geografie dei transiti planetari), come vediamo in questi giorni, non può essere nè sottovalutata nè affrontata con nuovi recinti. Essa è semplicemente incommensurabile ai vecchi sistemi di separazione e gestione dello stato nazionale, è al contempo molto più vecchia e molto più avanzata dello statalismo moderno;
- le tecnologie smart potrebbero, poi, arrivare (ovvero venire applicate) semplicemente troppo tardi. Implementare l'urbanità esistente con nuove tecnologie (e nuovi processi) può essere questione di decenni (si veda i casi citati da Towsend di Singapore e Londra);
- le tecnologie smart sono costose, e in un'economia planetaria stagnante come la nostra è probabile che esse siano appannaggio solo di multinazionali in cerca di uno dei più grandi monopoli dopo quello delle risorse energetiche fossili;
- le tecnologie smart potrebbero (quindi) portare ad asimmetrie planetarie (tra ricchi e poveri) in grado di limitare la nostra capacità di adattamento, introducendo dipendenza e fissità in nome (ancora) dell'efficienza e della predittività dei fenomeni.
Di fatto, mentre il progetto per un futuro possibile dovrebbe passare per una nuova concezione di ecologia politica, i residui della Modernità (tecnici, scienziati, istituzioni, centri di ricerca, multinazionali) faticano a ripensare il cambiamento. Il progresso (che ha mescolato sciaguratamente evoluzionismo, dialettica hegeliana e accumulazione capitalistica) è ancora il filo rosso che traspare dall'advertising che circola attorno alle New (Smart) Town del pianeta, ancora chiamate città anche se nate prima di avere cittadini.
Per queste ragioni questo nostro Collettivo#02 intende ricostruire il mondo ricostruendo il ruolo mediale del cittadino del mondo. La stella binaria attorno a cui gravita questo nuovo Collettivo sembra essere (per ora) il valore d'uso urbano unito alla capacità di innovare stabilmente le funzioni urbane. Al cittadino non compete solamente il rapporto servizievole nei confronti dell'urbano (che sta prendendo il sopravvento, esplodendo come una nana bianca in numerose bolle finanziarie planetarie - da Haussmann in poi l'accumulo del capitale si è riversano nelle città per moltiplicarsi liberamente, come in un terreno di coltura), ma, oggi più che mai, egli è divenuto hub tra prototipi urbani ibridi (che mescolano arte, architettura, tecnica, mondo fisico e tecnologie digitali).
Attenzione, però. Questi ibridi urbani (che si propongono al cittadino) sono sempre più fragili, diafani, temporanei. Hanno bisogno dell'aiuto dell'umano (glielo chiedono attraverso il crowdsourcing, il retweet, il like o, molto più semplicemente, tramite l'uso, per dimostrare quanto possono valere), e nessuna fisica sociale predittiva e deterministica potrà dirci (se non per autopromozione) a cosa porterà la nuova app o la nuova socio-tecnologia. In merito a questo le applicazioni economiche della sharing economy (nate con specifici business plan) stanno modificando il concetto stesso di cittadinanza, attraverso i processi e non per mezzo di teorie (come poteva accadere più di un secolo fa).
La fragilità di questo Collettivo#02 è peraltro più evidente di quella del Collettivo#01. Qui è in gioco la sopravvivenza di una cultura del piano, dell'opera urbana ibrida. Qui è possibile dipanare (poco) alcuni nodi che alcuni intenderebbero far tagliare da muri affilati e filo spinato appuntito. Primo fa tutti la possibilità di capire di non capire (che è differente dal sapere di non sapere). Non si tratta del sale della cultura, ma dell'afferrare di mano, di un'azione-teoria che procede molto più vicina all'istinto bergsoniano che alla fissità dell'intelligenza (che, per Bergson, può capire solo la fissità, non certo il movimento, i processi e le dinamiche). Ecco perché il Collettivo#02 è fragile, perché non potrà fondare stabilmente dipartimenti di ricerca o agenzie di pianificazione senza che ad esse venga affiancato un nuovo tipo di forma laboratoriale. Questi Laboratori Civici non elaboreranno apoditticamente verità universali (rivestendole della sacralità della Scienza e della Natura), ma avranno il compito di mediare tra i residui polari della Modernità. Ad essi competerà di convocare all'interno di piani e norme i fatti sociali, i cittadini, le politiche, le economie, le nature.
A questo punto dobbiamo chiederci: chi potrà condurre questi Laboratori Civici?
Occorrerà un nuovo Collettivo, il più fragile di tutti. Quello dedicato all'educazione.
"... something really big is booting up in the half-million-plus civic laboratories on planet Earth. Are you going to help to build it?" (A. M. Townsend)
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