Venerdì scorso si è tenuta, nell'ambito delle manifestazioni legate a I Luoghi delle Emozioni in mostra al San Gaetano di Padova, la conferenza di Federico Della Puppa (professore a contratto in Economia e Gestione delle Imprese presso lo IUAV di Venezia dal 2001), dedicata alle Città 2.0 come motore di sviluppo. Nella descrizione di Della Puppa le smart city hanno una serie di obiettivi notevoli:
- ridurre la dipendenza dalle risorse non rinnovabili
- ridurre lo spreco energetico (le città sono i maggiori energivori del pianeta)
- favorire il rinnovo del proprio capitale umano (promuovendo il ricambio generazionale, visto che una città vecchia consuma servizi senza produrre nulla)
- agevolare la condivisione dei processi di rinnovamento, favorendo logiche decisionali orizzontali piuttosto che quelle verticali
Naturalmente non entriamo qui nel merito degli strumenti o delle strategie specifiche per mettere in atto questa trasformazione delle città in smart city. Quello che ci interessa è innanzitutto sottolineare come le ragioni fondanti questa spinta al rinnovamento siano ancora principalmente di carattere energetico. Infatti l'Europa sta promuovendo (anche con un bando dedicato) la smart city come modello interno ad un generale piano di riduzione dei consumi (si sa che il Vecchio Continente paga molto per l'energia che consuma, e l'Italia è quasi completamente dipendente dal punto di vista energetico).
Il rischio del modello smart city è tuttavia molto elevato se ne consideriamo i costi sociali. La città nasce infatti storicamente grazie a fenomeni di accumulo: accumulo di capitali, accumulo di flussi umani, accumulo di edificazione. La città è un artefatto contrapposto alla natura non solo in termini espliciti, ma anche per paradigma: la natura si rigenera ciclicamente, la città accumula e si espande in modo lineare, non conosce storicamente un punto di equilibrio, pena la morte urbana (Venezia è un laboratorio continuo di tentativi di rianimazione urbana). La smart city si porrebbe dunque come la negazione dell'urbanità così come consolidata dalla storia, ma non è detto che non si possa rinunciare all'accumulo urbano in nome di nuovi processi di rifunzionalizzazione interna di parti intere di città. In tal modo la città verrebbe ad assumere un paradigma vegetale più che capitalistico, come una pianta anche la smart city ha necessità intrinseca di essere potata per rinnovare la propria capacità vegetativa.
Dunque, nel passaggio di paradigma, si tratterebbe in ultima analisi di operare sulla città esistente in modo che essa abbia gli strumenti (e le potenzialità) per i quali la rifunzionalizzazione interna sia estremamente agevolata, non un'alternativa più complicata della crescita sconsiderata verso l'esterno dei suoi bordi indefiniti. Questo non comporta solamente strumenti urbanistici adeguati, ma anche un controllo della ridistribuzione delle rendite fondiarie derivanti da tale rifunzionalizzazione.
Tento di chiarire il punto: la città, come accumulo, può essere rappresentata secondo diverse categorie (densità del costruito, distribuzione dei censi e delle etnie, modelli insediativi, tipologie prevalenti, edifici storici, ecc..); ogni categoria descrive la storia della città appiattita su di un medesimo piano temporale, quello in cui si effettua la sua descrizione. Il risultato economico di questo appiattimento è il valore fondiario dei lotti e degli edifici, per cui, ovviamente, la vicinanza al centro storico solitamente porta a valori maggiori mentre la vicinanza a grossi centri commerciali porta a valori più bassi, causando l'accesso di ceti più deboli e il rischio di un generale degrado sociale.
Il caso recentemente descritto dai mass-media su quanto sta accadendo a Londra a causa delle rifunzionalizzazioni determinate dal city renewal delle Olimpiadi rende evidente come anche il processo inverso (ovvero il caso in cui aree accessibili da ceti economicamente più deboli divengano improvvisamente più appetibili dal mercato e dunque vedano crescere improvvisamente la propria rendita fondiaria o catastale) sia socialmente destabilizzante. A Londra il mercato degli affitti e dei mutui di Stratford (ex area degradata della città che ora è il fulcro del renewal londinese) sta letteralmente espellendo gran parte dei residenti attuali, creando forti squilibri sociali. Questo, a grandi linee, è il rischio di ogni rifunzionalizzazione lasciata al libero mercato (così come accade anche per la gentrification dei centri storici), e le sue ricadute sono tutte sul tessuto sociale della città.
Ora, se la smart city andrà intesa solamente per i suoi risultati energetici e dunque funzionali, il rischio è che essa diventi un analogo (ma a scala maggiore) dei residence descritti da Virilio nei suoi libri: vigilanza armata, rigida regolamentazione interna, accesso per censo. La città così diviene l'analogo immobile di una macchina per ricchi, farne parte diventerebbe la dimostrazione di uno status sociale piuttosto che un impegno ecologico e partecipativo.
Quello che sfugge a molti (ma non a Federico Della Puppa, di cui attendo le prossime pubblicazioni) è che la smart city deve, prima ancora di porsi come progetto-modello sulla città esistente, porsi almeno due obiettivi strutturali, conditio sine qua non di ogni trasformazione urbana:
- costruire una rete reale di condivisione dei processi, aperta ai contributi di tutti, senza porre distinzioni di censo o di maggioranza
- istituire organismi di controllo della rendita immobiliare e fondiaria derivanti dalla rifunzionalizzazione
- puntare ad equilibrare gli squilibri (sociali ed economici) con l'obiettivo (non ideologico ma pragmatico) di dare accessibilità al capitale umano giovane.
Credo che i modelli organizzativi e gestionali siano già consolidati, ad esempio, nei casi di studio dei cultural quarters inglesi, francesi, irlandesi, in cui questa impostazione sociale (e non socialista) ha mostrato che senza un controllo capillare del mercato immobiliare (il cui accesso al renewal deve essere controllato) ogni investimento economico sulla città risulta pericolosamente dannoso. Cosa dare in cambio? E' semplice: tempi e costi certi, cosa che per le amministrazioni italiane spesso è (qui sì) pura Utopia.
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