critics+practices in contemporary architecture and spatial planning - critica, teoria e prassi in architettura e pianificazione urbana

martedì 30 ottobre 2012

AMNESIA (2) - city as representation (?)


Picture from Memento, by C. Nolan.

In my 2003 Phd thesis at IUAV (Shape and Monument, contemporary european city between imagine and imaginery) I worked on the crisis of Monument from Postmodernity to Contemporary. It seemed that architectural culture used history as a collection of shapes to magnify architectural symbolism in an non-sense age (which goes from late '70 to late '90). I meant to demonstrate that the matter was't irony but a certain need of cultural summons to keep architecture linked to a molecular urbanism and design language. The real matter was that there was no more clear connections between citizen and cities under the paradigm of dwelling. So architecture, in its traditional 'representational' function, must impose its presence to the city, addressing particularly to tourists and urban nomads, with short time and no urban roots.

Now, after 10 years, the matter of representation is more clear. I mean that on one side technology gave us more instruments to produce, collect and memorize images, and on the other we can face a general dismission of symbolic use of shapes in contemporary architecture. I think that this means that almost two past ways of reading the city are obsolete: on one side our membership to a city/civilization is no more based on the capability to collect and memorize images from city-scapes (I refer to Lynch studies) - this means, perhaps, that a phenomenological approach to the city is no more liable; on the other, symbols are somehow detuned in their capability to keep us together under a unique territorial identity.
We constantly produce our images and also our imaginery, but it's difficult to understand if we can talk about collective imaginery. But we produce a huge amount of images without being able to memorize them (or leaving this task to machines!). Will this fact corrupt the principal function of public space to represent our civilization?
I don't even have an answer. Deleuze early works dealt with difference and repetition, meaning that our culture needs in the same time to move forward the new and backward to some kind of persistence. A totally new approach in producing culture is not falsifiable, it deals with the tabula rasa approach, with no possibility of genetical evolution, if we methodically ignore the repetition phase to analize the results.

We are made also of past, but, at the same time, we are prisoners of the present, as in Memento movie.

Marc Augè has written about future and our incapability to imagine it. We are convinced that brand new architectures lead to the future, but they are simulacra, or perfect representations of what does not exist. We subverted the process that produced our historical cities (I'm italian, but I think that every city has an history), in which monuments are intended as fractures, tatoos on the collective skin of the city (monumentum comes from latin, and has the same prefix as monstrum and moneo, which means to warn, addressing to the future).

Our cult of imaginery has been a good propeller to escape from Postmodernity, but we sometimes forgot that we cannot have, at the same time, a metalanguage to see and comprehend the general picture. Postmodernity had irony, we have ecology, or an holistic approach to design.

I like brand new architectures, but they comes from a general misunderstanding of this process: they start as images (simultaneously made by softwares) and then become a part of the city. But it's quite clear to me that city is more than the sum of its architectures, and that we are designing non-symbolic monuments, so that we have to improve urbanity in a brand new way. The risk is that we will loose the sense of beeing part of a territory, just simply loosing the sense of reality: we are in a poor world near the collapse, we risk the end of our civilization.

But we can also forget it, for sure.

...john G. raped and murdered your wife...

venerdì 26 ottobre 2012

AMNESIA, sull'identità territoriale


Oggi il nostro rapporto con l’urbanità è estremamente complesso, e la continua inurbazione registrata dalle demoscopie lo renderà ancora più centrale di quanto non lo sia già.
Poiché la città costituisce la più grande rappresentazione della quotidiana (e millenaria) antropizzazione del territorio. Nella città si sommano e intrecciano infatti il risultato dell’antropizzazione e l'immediata trasposizione simbolica della civiltà. Semplificando: gli edifici sono al contempo oggetti concreti e rappresentazione di una volontà civile di controllo del territorio.
Da qui nasce la principale complicazione, poiché la città ci propone ogni giorno la schisi inevitabile tra la volontà del singolo e le ragioni del collettivo. Nella città si mette in scena ogni giorno la drammaturgia del rapporto tra pubblico e privato. Ma si badi bene: senza città non ci sarebbe percezione diretta del pubblico, nelle campagne i confini dello spazio privato sono più profondi e radicati rispetto a quanto accade in città, a dispetto dell’apparente uniformità del paesaggio.
Il nostro rapporto con il territorio, al di là delle indiscutibili ragioni economiche e sociali legate alla sopravvivenza, è un rapporto intimamente conflittuale. Avvengono conflitti tra il pubblico e il privato, tra i privati, tra azioni singole e interesse collettivo, tra trasformazioni che coinvolgono la collettività e gli interessi privati, ma anche tra l’azione antropizzante (con la propria impronta ecologica) e le esigue capacità rigenerative del bios naturale che le sopporta e supporta. 
Il territorio (inteso geograficamente come risultante della prima con il secondo) è l’archetipo nascosto della nostra auto rappresentazione a grande scala.
L’urbanistica è una disciplina recente (ha poco più di un secolo), tappa obbligata dal transito da una civiltà economicamente agricola ad una marcatamente industriale. Essa ha originariamente assunto come linee guida l’insegnamento dell’impero più urbanizzante della storia: l’Impero Romano. 

La centuriazione romana in alcune porzioni del territorio italiano è ancora visibile.

La 'griglia' a New York (foto anni '30).
La griglia diviene l'archetipo di ogni atto progettuale, nella visione di Superstudio.


I fondamentali di un progetto territoriale sono la democratica ripartizione della popolazione (in termini di quantità di spazio e di accessibilità alle risorse) e le reti infrastrutturali (per la circolazione delle merci e per il controllo capillare del territorio da parte del potere centrale). Questi fondamentali sono riscontrabili negli interventi di Haussmann a Parigi e in quelli di Cerdà a Barcellona nella seconda metà del XIX secolo.
Il rapporto con la città storica e i suoi monumenti (e a ben vedere lo stesso concetto di monumento) sono un po’ più recenti. Nel XVIII secolo i monumenti erano illuministicamente votati a dare rappresentazione all’autodeterminazione umana, verso la fine del XIX secolo il monumento diviene documento storicizzato di un passato. Questa visione si acuisce con le ricostruzioni del secondo dopoguerra: occorre recuperare una radice storica per non soccombere di fronte alla enorme responsabilità di ricostruire intere parti di città.
Lo stesso Mumford (uno dei più trasversali studiosi del rapporto tra architettura e città) scriveva nel ’47 che vi era la necessità culturale di fissare le linee guida di una Nuova Monumentalità. Quello che era in gioco era infatti una sorta di patto urbano fondato sulla convivenza tra individui differenti in un territorio ad elevata densità e meccanizzazione, tenuto insieme solo da una capillare rete di spazi pubblici e dalla convinzione che l’urbanità porti per il singolo maggiore benessere. E la guerra aveva indubbiamente colpito nel cuore questo patto urbano.

Dalla fine degli anni ’60 gli studi urbani divennero consapevoli che erano necessari strumenti più antropologici per leggere e comprendere le città dal punto di vista progettuale. ‘L’Architettura della Città’ e ‘La Città Frontale’ spinsero uno in direzione del dato memoriale di fatti urbani e l’altro in quella di considerare la città come un’opera d’arte. Dunque ai paradigmi economici e sociali si aggiunsero quelli derivanti dall’antropologia culturale e dell’estetica.

Oggi la città è lo scenario principale in cui rappresentare e rappresentarsi l’identità (collettiva e singola). Ne sono state esempio (seppur degradante) le monumentalistiche review nell’estetica dei centri commerciali che per circa 30 anni hanno recuperato dall’immaginario monumentale e storicistico l’idea di come realizzare un pezzo di città per mimesi culturale. Per l’antropologia culturale, infatti, non esiste luogo senza memoria. 
E gli antropologi che hanno visto le realizzazioni degli ultimi 30 anni sono solitamente d’accordo nel definire non luoghi questi tentativi mimetici.
D'altro canto anche il concetto di identità è estremamente liquido, ovvero in costante riflusso tra i paradigmi. Le più recenti ricerche di Baumann hanno rilevato come il rapporto tra l’identità e il luogo di residenza siano sempre meno di carattere mnemonico. La tendente dipendenza dei fondamentali dell’esistenza (lavoro, welfare, economia) da capitali sempre più nomadici sta corrodendo il concetto stesso di appartenenza territoriale, mettendo in luce come essa sia un fenomeno dinamico e non un’ipostatica costante. 
In altre parole non si mette, oggi, in discussione un passato documentale, quanto la possibilità stessa di delineare (e immaginare) il futuro.

Negli anni ’90 l’immaginario collettivo si dedicò alla rappresentazione dell’amnesia come stato di afflizione dell’individuo. La letteratura e il cinema ne indagarono gli anfratti nascosti, mostrando come non fosse più possibile fondare l’identità sulla memoria (Blade Runner ne fu un eccellente anticipazione, affiancato da Memento, Matrix, Tokyo non ci vuole più bene…). Dal punto di vista dell’urbanità potremmo dire che viviamo in una condizione per cui la città non ci appartiene più in modo memoriale, ne siamo sempre ospiti e sempre meno cittadini. Questo significa che le sovrastrutture (anche virtuali) che regolano le informazioni sulla città devono essere sempre più accurate e diffuse, ma funzionano in supplenza della nostra amnesia costante. Abbiamo navigatori, smartphone e occhiali a realtà aumentata per collegarci ad una realtà urbana nella quale non esiste memoria tangibile di ciò che la nostra civiltà sta diventando.

E’ possibile immaginare un futuro senza memoria? E se l’amnesia fosse l’unica strategia possibile per poter ricercare proprio il futuro, come se l’eccesso di cultura e conoscenza fosse un ostacolo alla realizzazione di un’identità collettiva votata ad un presente continuo, nel quale agire creativamente e senza preoccupazione per fondare strutture di senso e rappresentazioni collettive come solo la città storica è stata?

Senza dubbio la società ha oggi una rappresentazione collettiva a costo zero (rispetto alla costruzione di architetture e città): il social network. In esso si riversano le nostre memorie giornaliere (foto, appunti, saggi, musica, video) ma anche gran parte della progettualità che ci contraddistingue come specie (videogiochi in rete per costruire città immaginarie, come SimCity e correlati). Esso costituisce anche uno strumento di crowding indiscutibilmente potente: il social network aggrega intenzioni e potenzialità per progetti provenienti dal basso, ovvero bottom-up
Ciò che ancora manca (ma che l’attuale legislazione urbanistica sta mettendo in campo) è di connettere questa collettivizzazione di intenti con la progettazione territoriale, in modo che un intero territorio possa essere espressione di un’identità collettiva di nuovo tipo, un’identità espressione di singoli utenti che partecipano attivamente ad una rete di produzione di senso.
La smartcity è un neologismo che tenta di raccogliere questi paradigmi in un modello di sviluppo urbano alternativo. La sua novità consiste a mio avviso in:
-          Introdurre nuovi strumenti di trasformazione del territorio, modificando le sovrastrutture intangibili piuttosto che intervenire sulle strutture tangibili
-          Introdurre strumenti di collettivizzazione delle decisioni
-          Ridurre al minimo l’impiego di territorio
-          Intervenire in modo interstiziale e nei luoghi residui, istituendo una versione edulcorata di riciclaggio degli ‘scarti territoriali’
-          Fissando i principali obbiettivi delle proprie strategie per il futuro nel potenziamento della società urbana e nella riduzione dei costi per le trasformazioni urbane
-          Sancendo l’identità territoriale come conditio sine qua non per il futuro degli insediamenti urbani

Per queste ragioni, oltre a smart city, è stato introdotto anche il termine urban village, con chiaro riferimento al villaggio globale di McLuhan. La soluzione di problemi globali si affronta in modo locale, compiendo una rivoluzione che (letteralmente) ci riporta ad una società radicata nel territorio, ma necessariamente molto più alfabetizzata dal punto di vista informatico.

Superkilen, parco urbano a Copenhagen.


L’esempio con cui vorrei concludere è la recente realizzazione, a Copenhagen, del parco urbano di Superkilen, a cura degli architetti BIG, dei paesaggisti di Topotek1 e degli artisti visivi di Superflex.
La realtà multietnica del quartiere di Copenhagen è stata rappresentata nella lunga striscia del parco urbano attraverso una partecipazione gestita sui social network, nel quale era stato reso pubblico il masterplan di progetto. Scrive Ingels (BIG): “potevamo disegnare un’area urbana scegliendo il meglio del design danese più attuale e premiato. Invece abbiamo deciso di raccogliere l’intelligenza locale e l’esperienza globale di 60 diverse nazionalità e culture in fatto di arredo urbano”.

lunedì 15 ottobre 2012

COMMON GROUND - Biennale di Venezia 2012



(NOTE: soon I'll write an english version of this post)

La Biennale di Venezia curata da Chipperfield è un evento anomalo nella spettacolarizzazione collettiva che ha coinvolto la disciplina architettonica negli anni di esplosione delle immagini e degli immaginari anche grazie ai new media e ai social network. Per anni i progettisti new blood hanno diretto la disciplina a indagare e sperimentare il nuovo come tema unico e dominante, rispondendo anche ad un impellente desiderio di visibilità (e visibilio) da parte di una committenza molto ricca e culturalmente votata a trasformare l’architettura in attrattiva economico-politica per il controllo turistico e ideologico dell’immaginario.
Gli architetti, da parte loro, hanno assunto un atteggiamento disinteressato nei confronti dell'esistente, assumendo una prassi di rimozione metodologica atta a rivolgersi al nuovo come unico principio di indagine e sperimentazione formale. Tuttavia non deve essere confuso il principio guida della Biennale di Venezia con l'ansia innovativa delle Esposizioni Internazionali: la volontà di rappresentare e raccontare il tempo presente non può essere confusa con l'esposizione di un futuro possibile. Nonostante la ricerca architettonica abbia recentemente privilegiato un malcelato utopismo grazie agli strumenti forniti dalle tecniche (di rappresentazione e di realizzazione) non dobbiamo dimenticare che la nostra disciplina ha più di qualche millennio di esperienza sul campo (per quanto peraltro ci è dato di sapere, ma potrebbe essere anche un periodo più lungo): l'innovazione non può essere colta solo per il suo aspetto formale, ed è possibile che anche le strutture non trilitiche di Ghery e Hadid abbiano dei precursori nascosti o travolti dal susseguirsi delle ere planetarie).

Chipperfield è indubitabilmente colto, e il tema da lui proposto è letteralmente rivoluzionario: è un ritorno alla partenza, dopo lunghi decenni di cicliche linee di fuga dal contesto urbano e storicamente consolidato. Di qui il common ground, la negazione forzata delle prospettive degli –ismi di cui le archistar più colte hanno fatto il loro cavallo di battaglia (tra i quali campeggia probabilmente il parametricismo delle ricerche algoritmiche della sezione ARUM dello studio Zaha Hadid Architect). Non è un caso che ritornino in auge architetti con un atteggiamento più radicalmente storico (non storicista per stile, ma culturalmente attento a definire il nuovo attraverso altre strategie differenti dalle ‘nuove forme’), architetti di lungo corso (come Luigi Snozzi o Hans Kolhof) che hanno saputo ridurre la spettacolarizzazione dell’architettura radicalizzando invece la lettura della città esistente.
Il new urbanism (che viene comunemente rappresentato nelle review vernacolari di Krier) viene metabolizzato assieme alle pulsioni moderniste, la Postmodernità è dichiaratamente superata ma non dimenticata nel suo atteggiamento di ludica mixitè della memoria. 

Monumento al Modernismo di R. Burghardt.

Infatti la 'chiave' di accesso all’Arsenale è il Monumento al Modernismo per Berlino di Robert Burghardt (2009), una dichiarazione di stasi poetica nelle forme dell’architettura, che ha metabolizzato completamente le forme dell’International Style, riproposte come monumento, contrariamente alla loro originaria pulsione sovranazionale e anti-monumentale.
La città storica (di cui l’Italia è densa per quantità e modelli d’impianto) è tuttavia un concetto che va esteso a tutte le città esistenti, la storia è compressa al presente, con tutte le stratificazioni e densità che ne derivano. Non si tratta di un contesto forzato (contro il quale Koolhaas ha scritto nel suo Bigness di quasi 20 anni fa), ma di aprire gli occhi di fronte ad una realtà dimenticata a favore di un immaginario aleatorio e autoreferenziale. Le fotografie di Thomas Struth, a stretto contatto con il Monumento di Burghardt, ci ricordano proprio questo mutato atteggiamento proposto dalla lettura di Chipperfield: le periferie della vecchia città storica sono diventate la nostra città storica, il nostro contesto culturale, la città reale che propone una sfida per il futuro.
Poiché le strategie di lettura e sviluppo della città esistente hanno grosse lacune, sono visioni parziali, spesso forzate dai paradigmi culturali in voga, tutte essenzialmente estranee dal principio di falsificazione che regola, invece, la scienza e l’economia. In altri termini per le teorie urbanistiche vale un principio di generale equivalenza, non esiste un riconosciuto principio di obsolescenza. Dopotutto (e qui sta l’errore metodologico) le città sono sempre esistite da quando esiste l’architettura, e il comune principio di sostanzialità le rende culturalmente e metodologicamente immuni all’evoluzionismo dell’epistemologia popperiana.
Nella presentazione di Chipperfield sul sito della Biennale di Venezia si può leggere infatti che:

(...) Contro ogni previsione, l’Italia rimane la patria spirituale dell’architettura. È qui che si può comprendere pienamente l’importanza dell’edificio non come spettacolo individuale, bensì come manifestazione di valori collettivi e scenario della vita quotidiana. La sensibilità e la percettività della gente derivano senza dubbio dal fatto di vivere a contatto con il più grande patrimonio di architettura e urbanistica esistente al mondo. Questo senso tangibile del contesto e della storia ci ricorda che il nostro mondo edificato è una testimonianza della continua evoluzione del linguaggio architettonico e uno strumento essenziale per la nostra comprensione del mondo che ci circonda.


Tali presupposti mi hanno ispirato a orientare questa Biennale verso tematiche riguardanti la continuità, il contesto e la memoria, verso influenze e aspettative condivise. Mi hanno portato a concentrarmi sull’apparente mancanza di intesa tra la professione e la società. (...)

L’Italia ha conosciuto una grande dualità nella storia delle scienze architettoniche del secondo dopoguerra, da un lato i Radicals fiorentini, votati all’utopia, e dall’altro le teorie sui fatti urbani che le principali università formalizzavano tra gli anni ’60 e ’80. Per semplificare: da un lato un futuro immaginario, dall’altro un passato idealizzato. L’errore paradigmatico (ma forse non c’era alternativa di fronte alle urgenze della ricostruzione nella sciagurata stagione del ‘boom’ italiano) è stato di considerare la città tutta come un monumento artistico collettivo, nel quale l’invarianza d’impianto, di tipologie e di carattere architettonico era vista come superiore e incommensurabile all’azione umana sul territorio antropizzato. 

Prima edizione de 'L'architettura della città (1966)', riportato nel Padiglione Italia.

Una rilettura del noto Architettura della Città di Aldo Rossi (1966) mostrerà come questa visione strutturalista abbia portato ad una sostanziale separazione tra il valore del ‘centro storico’ e l’assenza di valore della ‘periferia’, alimentando sul lungo periodo due atteggiamenti deleteri per la città e il suo futuro: da un lato il ‘centro storico’ sarà sempre più oggetto di conservazione museale (con una deviazione turistico-espositiva verso la city-consumption di Morales), dall’altro la periferia diverrà (per opposizione duale) la patria del non-luogo di Augè, nonostante i tentativi più recenti di salvarne l’efficacia produttiva nel descrivere tali territori come città diffusa.
In tutto questo la validità delle teorie rossiane (e della Scuola di Venezia, ora quasi del tutto scomparsa) non è del tutto superata. In esse riscopriamo alcune linee-guida alla base della stessa Biennale ‘Common Ground’:

-          La città va letta come dato geografico
-          L’architettura è uno degli elementi che danno forma all’azione umana sul territorio, ma non è il solo
-          La città è un manufatto  collettivo e ‘nella storia’: il ‘tutto’ è più importante delle sue ‘parti’

Le questioni metodologiche di analisi della città esistente (tramite gli studi morfologici e tipologici) sono purtroppo obsolete, poiché le trasformazioni che la città e la cultura urbana hanno subito ad oggi hanno disarticolato il rapporto tra edifici e città (sia nel loro rapporto tra ‘parte’ e ‘tutto’, poiché non è chiaro cosa sia il ‘tutto’) e tra il carattere pubblico degli edifici e l’immagine complessiva del contesto urbano.
A questo tema si rivolgono le due installazioni video di Norman Foster e di Farshid Moussavi.  Esse pongono almeno due interrogativi:

-          Qual è il rapporto tra l’architettura e il proprio contesto?
-          Qual è il rapporto tra l’architettura e il suo utente?

Moussavi dichiara esplicitamente (attraverso un montaggio analogico tra architetture del passato e della contemporaneità) che sussistono affezioni comuni (una sorta di sublimazione di tipo e carattere in un unico dato sensorial-interpretativo) tra gli edifici, e che ogni nuovo edificio inevitabilmente può esser fatto rientrare in questa sorta di tassonomia sinestetica.

Una volta poste le basi metodologiche e culturali a Common Ground, Chipperfield può dedicarsi all’esposizione degli esempi che ricercano questa faticosa via laterale, transitando silenziosamente tra i modelli di Kolhof, gli schizzi di Campo Baeza, la ricostruzione della casa di Anupama Kundoo, gli studi di ScanLab e il monumentale (e ironicamente sepolcrale) tavolo dell’immaginario degli archistar curato da Valerio Olgiati. Solo Maas di MVRDV ha inteso la ‘trappola per ego’ di Olgiati!

Hans Kolhof, modelli di studio sul carattere delle facciate.

schizzi di studio di Campo Baeza.
il QR code rimanda ad una colonna sonora su YouTube, un'attualizzazione dello schizzo.
ricostruzione della casa dell'architetto indiano Anupama Kundoo, un workshop internazionale per la Biennale.
Tavolo sacro sull'immaginario delle archistar, di Valerio Olgiati.
Tavolo sacro sull'immaginario delle archistar, di Valerio Olgiati.
L'immaginario di Winy Maas.

Le firme dell’architettura in mostra all’Arsenale hanno mostrato (con differenti risultati) di aver compreso la sfida di Chipperfield: mostrare consapevolezza civile e qualche risultato concreto. 
In questo Sergison Bates mi è sembrato il più consapevole, eludendo volutamente sia l’invenzione che il vernacolare in una radicale anonimia architettonica, intensamente voluta e ricercata. Dall’altro lato Copycat del nostro Cino Zucchi accetta di svelare la rimozione di ogni archistar: l’immaginario collettivo porta inevitabilmente alla copia.

Opere civili di Sergison Bates (housing e servizi per la collettività).

In questa coerenza concettuale mi permetto di rilevare due 'errori' (dovuti tuttavia ad una captatio benevolentiae che comprendo appieno): da un lato l’esposizione dei lavori di ARUM di ZHA (per quanto piacevoli da fotografare e seducenti) è concettualmente inutile, avrei trovato più interessante e colto da parte di Hadid l’accettare il nuovo ordine (anche se un po’ quaresimale) dell’architettura mondiale mostrando come le realizzazioni più vecchie si siano contestualizzate col tempo (come il ‘Bar Hadid’ aperto nel Landscape Formation One a Weil Am Rehin, con le vetrate rotte e i tamponamenti provvisionali in legno); dall’altro (all’opposto) avrei preferito dedicare spazio a Yona Friedman (forse il solo architetto realmente esperto di common ground) piuttosto che alla celebrazione dell’autocostruzione (fasulla) nel bar di Urban Think Tank. 

Modelli di studio di ARUM/ZHA.
Urban Think-Tank

Non credo infatti che l’assenza di progettualità equivalga ad una progettualità bottom-up, ma certamente il dibattito è aperto…



Ho apprezzato poi, all’Arsenale, i lavori sull’America de urbanizzata, 13178 Moran Street da Detroit e Team Chicago City Works. Avendo letto Apocalypse Town credo che gli Stati Uniti meritino questa rappresentazione di freschezza ingenua per affrontare gli effetti urbani di una crisi paradigmatica dei ‘suburbia’ e delle New Town, di lungo periodo (come l’installazione dei Crimson al Padiglione Italia denuncia apertamente).



13178 Moran Street (collettivo di Detroit).
Team Chicago City Works - le architetture della modernità per Chicago.
Team Chicago City Works - le proposte per un urban renewal ingenuamente e radicalmente  utopico.
Team Chicago City Works - dettaglio del plastico.
una delle 'pale' dei Crimson contro la strategia urbanistica delle New Town (Padiglione Italia ai Giardini).

Anche la retrospettiva dedicata a Olivetti e alla fortunata (e mai più ripetuta) figura di un gigante dell’imprenditoria italiana e al contempo direttore dell’Istituto Nazionale di Urbanistica è stata apprezzabile. Purtroppo la storia economica e urbana dell’Italia non ha saputo farne tesoro.

Sede dell'Olivetti a Pozzuoli (modello) - progetto di L. Cosenza (realizzato nel 1959)

Al Padiglione Italia, ai Giardini, confesso di aver dedicato poco tempo. Tuttavia ho trovato interessante il recupero dei maestri ‘nascosti’ dell’architettura, oltre alla spiegazione iniziale sull’abusivismo edilizio italiano. Dopotutto un atteggiamento più esplicitamente ‘quaresimale’ è d’obbligo per la patria mondiale del Cattolicesimo! 
La pulsione teoretica della Columbia sul Campo Marzio piranesiano per Roma e la sua rilettura operata da Eisenmann e collaboratori mi è parsa come un afflato retorico che cerchi di sovrapporre archeologicamente le visioni ‘deliranti’ dell’urbanismo new yorkese, analizzato dal giovane Koolhaas negli anni Settanta, alle tematiche più silenti della grammatologia iniziatica di Purini, mancando la forza ideologica di entrambe. Il pastiche giovanilista, la democratizzazione attraverso la griglia formalista, il tentativo di affidare agli edifici il ruolo di attori nel campo di battaglia dell’urbanità è sembrato inconsistente di fronte alla drammatizzazione del ruolo dell’architettura nella contemporaneità.
'Journey to a Common Ground'. Breve diagramma storico secondo il gruppo della Columbia.
Studi sul Campo Marzio (Padiglione Italia ai Giardini).
Studi sul Campo Marzio.
Studio sul Campo Marzio (P. Eisenmann).

Molto più sensato il rinnovato legame ai dettagli espresso da Toshiko Mori e dalle fotografie della Chemollo, oltre alla dimostrazione ironica dell’inconsistenza dell’ideologia della smartcity espressa nell’animazione di MVRDV e da The Why Factory. Confesso che ho apprezzato anche la rappresentazione delle esperienze milanesi negli anni ’60 e ’70 nella realizzazione di edifici in linea, gli schizzi di studio, lo sforzo atto a portare nell’edilizia comune quell’afflato contemporaneista,  riconoscendo, ante litteram, il ruolo pubblico del prospetto (quello che Zaera Polo definisce oggi l’envelope, includendo anche gli apparati impiantistici di controllo del clima interno).

Studi e realizzazioni sulle facciate degli edifici in linea a Milano negli anni '60-'70.

Studi e realizzazioni sulle facciate degli edifici in linea a Milano negli anni '60-'70.
Studi e realizzazioni sulle facciate degli edifici in linea a Milano negli anni '60-'70.

La lezione più perfetta rimarrà infine quella del padiglione del Giappone, che dimostra (almeno da 3 edizioni a questa parte) estrema capacità di lettura del (proprio?) presente. Sullo sfondo di fotografie del post-tsunami sono esposti i modelli di studio (alcuni concettuali, altri a scala di dettaglio) elaborati da un think-tank trans-generazionale di architetti (Toyo Ito e Sou Fushimoto ne sono stati gli animatori più conosciuti).

House-for-all (Padiglione del Giappone).
House-for-all (Padiglione del Giappone).
Modello concettuale.
Modello concettuale.

House-for-all: modello finale.
House-for-all: modello finale.
L’obiettivo era la realizzazione di una ‘house for all’ che racchiudesse (con l’efficacia intellettuale che solo una civiltà millenaria come quella giapponese può raggiungere) le aspirazioni, le speranze, i materiali residui, le idee di un popolo devastato da uno dei più grandi cataclismi della storia recente. Confesso che leggere i commenti dei progettisti riportati in calce ad ogni modello ha riportato vera e sofferta poesia in una disciplina (come è l’architettura) purtroppo violentata da strategie economico-politiche per troppo tempo. Forse un nuovo inizio, una lezione di civile, laica umiltà da parte di un popolo fiero di essere la summa di oriente e occidente.