critics+practices in contemporary architecture and spatial planning - critica, teoria e prassi in architettura e pianificazione urbana

giovedì 7 giugno 2018

FREESPACE - Biennale di Venezia 2018




Nel 1991 il compianto Lebbeus Woods pubblicò il suo progetto Zagreb Freespace, che descrisse con queste parole:

Freespace structures (leaning, bridging, suspended) inserted temporarily into the streets of Zagreb, Croatia, during the political crisis of 1991. Serving as communications centers and personal spaces, they become active instruments—machines—of change.

Nel 2018, a quasi trent'anni di distanza, invitato dal Padiglione del Brasile alla vernice della Biennale di Venezia, mi sono trovato disorientato di fronte a quanto esposto ai Giardini.
Visto il titolo dell'esposizione, infatti, mi aspettavo quanto meno una sorta di continuazione della pregnante riflessione sul rapporto politiche-architettura-informalità affrontato con grande lucidità dal precedente curatore, Alejandro Aravena, col suo Reporting From The Front.

Purtroppo, nonostante le curatrici dello studio Grafton abbiano dichiarato una lettura strettamente poetica del tema proposto per la Biennale 2018 (come giustamente sottolineato dall'amico e collega Alessio Barollo), credo che l'implicita dimensione politica della parola freespace sia stata comunque esplicitata in alcuni padiglioni, seppur generando, per la maggior parte, solo argomentazioni blande, dal vago sentore elitario. In alcuni casi le esposizioni (come quella 'drammatica' del padiglione di Israele) hanno rappresentato lo status quo, in cui proprio le ragioni politiche riescono ad annichilire proprio quella carica poetica e propositiva che ancora viene accreditata al design.
Naturalmente esistono eccezioni a questa lettura generalizzata, come i padiglioni della Spagna e del Brasile, ma anche esposizioni che spingono all'imbarazzo di un cultore della materia, come quella del padiglione della Gran Bretagna, letteralmente vuoto.


Il titolo dell'esposizione del padiglione è Islands, ed essendo a Venezia dev'essere parso logico realizzare un'altana temporanea sul tetto del padiglione, dalla quale poter vedere le isole di San Servolo e San Lazzaro, nonché il Lido, dopo appena qualche minuto di coda per accedere alla scala che porta all'altana.




Questo rifiuto di ogni rielaborazione del politico sul tema dello spazio libero era forse inevitabile in un paese in cui Patrik Schumacher auspica la scomparsa dello spazio pubblico a favore di un più gestibile spazio privato ad uso pubblico.
Purtroppo (ne scriverò prossimamente) lo spazio pubblico, per quanto problematico e sede privilegiata (e forse unica) dei conflitti interni ad ogni città, non può venire eliminato senza che questo porti a conseguenze ingestibili per l'amministrazione urbana. Esso sarà sempre luogo di conflitto e negoziazione, e se conflitto e negoziazione non troveranno (più) spazi pubblici in cui esplicarsi allora ne occuperanno altri, in modo più o meno lecito.

Lo dimostra il piccolo padiglione dell'Egitto, attraverso i suoi diagrammi sull'occupazione della sede stradale da parte dei mercati informali di Il Cairo, dal titolo Informality as an Alternative Urban Order:


Come ho scritto, anche il vicino padiglione del Brasile è estremamente interessante e molto ricco di proposte progettuali che nel tempo hanno cercato di rispondere a questioni di scala differente, dal quartiere alla metropoli. Il progetto che ammiro, per ovvie ragioni, è quello esposto dall'amico Marko Brajovic, fondatore di AMB a Sao Paulo, dal titolo NSDC:


Si tratta del rifacimento delle panchine volute dalla municipalità della città brasiliana e realizzate dai residenti su progetto AMB, atte a riutilizzare gli stanti di alcune recinzioni dismesse che suddividevano alcuni spazi pubblici. Ho trovato molto poetico trasformare un recinto in un oggetto di design urbano dal carattere estremamente contemporaneo. Il design di AMB ha fatto uso della parametrica di Grasshopper e dell'affidabilità nella produzione offerta dai partner italiani, la Green Spin srl di Vicenza.

All'interno del padiglione del Brasile è possibile poi visionare alcuni plastici realizzati in un rigoroso bianco-nero, che li trasfigura in prototipi concettuali a posteriori. Si tratta infatti di progetti realizzati e selezionati come esempi di ibridi architettonici, in grado di dare risposta glocale alle sfide della contemporaneità, in un paese complesso ed ampio come il Brasile.




Ho apprezzato anche lo sforzo mostrato nell'allestimento del padiglione della Francia, che mi è parso  volutamente anti-elitario, anche se a prezzo di un'estetica che mescola il cheap con il pop. Interessante la dimensione volutamente comunitaria dell'esposizione, con plastici realizzati (quasi) come fossero maisons de poupées e pannelli che riportano una certa coralità di affermazioni sul ruolo degli architetti, delle comunità urbane e della società civile nel mondo contemporaneo:



Anche qui, in un pannello per i liberi contributi del pubblico, ritroviamo una certa lettura dello spazio libero come spazio informale, dove informale non significa 'senza forma' ma, più propriamente, con regole resilienti (come la Farm Cultural Park a Favara, che si è meritata una dedica speciale, nella foto).

Il vicino padiglione degli Stati Uniti mi è parso, invece, volutamente sciatto, non certamente all'altezza delle passate sperimentazioni di Greg Lynn. L'allestimento non entra poi nel merito della schizofrenia (prima latente e ora palese) tra la sua tradizione liberale di lungo periodo e l'attuale leadership interna dal piglio volutamente autarchico. All'ingresso del padiglione, potete leggere una dichiarazione di intenti che volutamente sposta le responsabilità di questa schizofrenia sui (cito) "requisiti rizomatici e paradossali della cittadinanza". 



Anche qui la dimensione politica dell'architettura viene mostrata solamente come capacità di offrire strumenti universali di design per ogni dimensione del controllo e del dominio: dal nuovo muro tra Messico e USA, passando per la sorveglianza satellitare, fino a giungere allo US S.P.A.C.E. Act del 2015, che permette (unilateralmente) agli imprenditori privati di impadronirsi delle risorse dello spazio esterno (vita biologica esclusa). Sic!




Ho trovato i disegni esposti nel padiglione del Giappone tecnicamente interessanti, ma vuoti di significato, nonostante la pretesa di indagare l'architettura dal punto di vista antropologico.
Similmente reputo fuori luogo i 'bacelli' riempiti di aria e acqua all'interno del (sempre splendido) padiglione dei Paesi Nordici:


Mi sono infatti parsi più adeguati ad una Biennale d'arte, poiché rimango affezionato alla pragmaticità dell'architettura e alla sua inestricabile e intima correlazione con le funzioni.
A questo punto della visita, mi duole tantissimo scriverlo, il freespace mi sembrava principalmente il racconto di una disciplina rimasta orfana dei propri maestri e professionisti, dunque uno spazio liberato dalla presenza degli architetti.

Forse per questo, nel padiglione Italia, il mezzanino in cui dominano i grandi modelli materici dell'atelier di Peter Zumthor costituisce un'oasi in cui prendere respiro e immaginare che lo spazio sia ancora materia di progetto, e dunque libero da vincoli e normative, una tavolozza sulla quale l'architetto (solo) può tracciare progetti sapienti per il bene dell'uomo. Non è un caso se sui social, per la Biennale di Venezia 2018, troverete foto principalmente di questi modelli. Infatti non ricordo altre Biennali così asciutte e scarne, con pochi modelli e troppi spazi liberi.





Attorno ai modelli di Zumthor si respira ancora la modernità degli anni Settanta, con tutta la carica derivata dall'ibridazione tra architettura e arte (con altri protagonisti illustri, come Vito Acconci e i giovani Herzog&De Meuron) e l'energia utopica e critica dei Radicali europei e dei Metabolisti giapponesi. A fare da contraltare a Zumthor troverete il plastico relativo al progetto BIG U per Manhattan, dove certamente potrete imparare come si fa a vendere caro l'immaginario prima ancora del buon design.

Accenno solo di passaggio all'imbarazzante ricostruzione, all'interno del padiglione dell'Olanda, della stanza del Bed-In di Yoko Ono e John Lennon del marzo del 1969 all'Hilton di Amsterdam, per finire, invece, con il padiglione che ho trovato ricco di citazioni, rimandi, utopie e progettualità ludica, e che, pertanto, mi ha entusiasmato.

Parlo del padiglione della Spagna, che ha puntato tutto su una coloratissima composizione delle pareti mediante progetti, diagrammi e citazioni. Ammiro la libertà dei progettisti spagnoli nella costruzione di un immaginario collettivo non soggetto alla propria tradizione storica e sempre intensamente provocatorio.






Simulando la giustapposizione delle informazioni nell'informe WWW, la progettualità magmatica messa in mostra nel padiglione della Spagna dimostra, per eccesso, la fatica di una disciplina messa a dura prova dall'ibridazione tra nature e politiche (sostenibilità), dall'ibridazione tra funzioni (rigenerazione urbana) e dall'ibridazione tra umani e non umani (connettività e interazione delle reti). Aggiungo, collateralmente, che la citazione di Bruno Latour mi ha colpito, essendo la prima volta che le parole dell'antropologo-filosofo-sociologo francese compaiono in Biennale.

Ne esce un quadro complessivo a un passo dal delirio, e per questo al contempo preoccupante ed entusiasmante. Viva la Spagna, dunque, per aver mostrato il freespace non come un tema unitario, quanto come un ossimoro rischioso ma inevitabile, ed aver raggiunto, ai Giardini, più di tutti gli allestimenti, quella dimensione anti-utopica, perché profondamente politica, che Lebbeus Woods ha instancabilmente indagato con i suoi freespaces.

Nessun commento:

Posta un commento