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giovedì 8 ottobre 2015

CITTA' (PIU') INTELLIGENTI E CITTADINANZA ATTIVA (#02) - oltre le economie politiche





Oltre le economie politiche: alcune letture.
Nel 1966 il filosofo Henry Lefebvre pubblicò il suo ‘Diritto alla città’, in occasione del centenario dell’edizione del Capitale di Marx, mostrando come la città (e non solo la fabbrica) fosse un luogo di conflitto e necessaria rinegoziazione tra attori sociali. Nel 2012 il geografo David Harvey (richiamando esplicitamente le tesi di Lefabvre), nel suo ‘Città Ribelli’, evidenziò come la crisi economica globale partita nel 2006 abbia sostanzialmente radici urbane. Harvey allargò dunque il contesto urbano di Lefebvre all’intero pianeta, mostrando come il trend di crescita delle aree urbane costituisca un accelerante del processo di emersione dei conflitti (sociali) e delle crisi (economiche). Nel 2014 l’economista Jeremy Rifkin pubblicò il suo “La società a costo marginale zero”, nel quale tentò di descrivere l’evoluzione dell’economia politica dal capitalismo al common collaborativo. La tesi principale di Rifkin è che sia possibile un periodo di convivenza tra paradigmi: da un lato un capitalismo debole e dall’altro un set di commons in continua espansione e sviluppo. Qualcosa sta cambiando, da tempo ormai, e l’emergere di nuove prospettive è palese.

Anche gli osservatori internazionali più attenti agli esiti delle economie politiche hanno rilevato questa ‘laboratorialità emergente’ che stiamo cercando di raccontare. Nell’ultimo rapporto ONU sullo sviluppo umano (2013) la stima di crescita basata sull’indice ISU (Indice Sviluppo Umano) mostra che i paesi ‘in via di modernizzazione’ (uso l’accezione moderno nel senso filosofico di autodeterminazione dei rapporti di dominio sui propri territori nazionali, indipendentemente dal progresso e dal PIL) sono sostanzialmente grandi laboratori nazionali di innovazione, spesso per necessità, altre volte per virtù ‘relativa’. Rimangono comunque potenziali grappoli di best practice da cui poter trarre insegnamento.

Scrive il Rapporto che: “quando durante la crisi finanziaria del 2008–2009 le economie sviluppate hanno smesso di crescere mentre quelle dei paesi in via di sviluppo hanno continuato a progredire, il mondo è rimasto colpito. L’ascesa del Sud, vista all’interno del mondo in via di sviluppo come un ribilanciamento globale atteso da tempo, è stata da allora molto discussa. Tipicamente, questo dibattito si è concentrato strettamente sul PIL e sulla crescita degli scambi in alcune grandi nazioni. Tuttavia sono in gioco delle dinamiche più estese, che coinvolgono molti più paesi e tendenze più profonde, con implicazioni potenzialmente di vasta portata per le vite delle persone, l’equità sociale e la governance democratica a livello locale e globale”.

Poco oltre, è tuttavia possibile leggere anche un’ammissione problematica che qui ci interessa, poiché dà conto della necessità dell’esplorazione verso nuove istituzioni civiche: “Molte delle attuali istituzioni e principi di governance internazionale erano stati progettati per un ordine mondiale che non corrisponde più alla realtà contemporanea. (…) In tutto questo, i governi sono comprensibilmente preoccupati di preservare la sovranità nazionale. Un attaccamento troppo rigido al primato della sovranità nazionale può però incoraggiare un pensiero a somma zero. Una strategia migliore è la sovranità responsabile, con cui le nazioni si impegnano in una cooperazione internazionale equa, basata su regole e responsabile, unendosi in sforzi collettivi che migliorino il benessere globale. (…) Le reti della società civile possono ora trarre vantaggio dei nuovi media e delle nuove tecnologie della comunicazione. Tuttavia le organizzazioni della società civile debbono a propria volta affrontare domande sulla loro legittimità e responsabilità. Ciononostante, la futura legittimità della governance internazionale dipenderà dalla capacità delle istituzioni di impegnarsi con le comunità e le reti di cittadini.”

Da una lettura trasversale di questi contributi (così disciplinarmente distanti e tuttavia convergenti, al di là delle scale di rappresentazione) emerge un set di ragioni per le quali il cambiamento diviene finalmente potenziale e non solo l’auspicio di un’oligarchia di pensatori illuminati (si passa dunque dal si deve al si può). Tra le parentesi quadre ho anticipato gli sviluppi latenti, per mostrarne una lettura positiva:

1- Conflittualità (latente o esplicita): le istituzioni e gli attori sociali sono fissati nelle proprie ragioni ‘identitarie’ (ontologie) e al contempo si accorgono di non potersi più ignorare. [Ne può nascere un conflitto per il potere, come pure una rinegoziazione delle proprie ontologie];

2- Inefficacia del sodalizio teoria-prassi: le azioni non possono essere controllate o non portano ai risultati attesi. [Occorre rivalutare il rapporto tra ricerca e impresa (anche sociale)];

3- Errori di traduzione/ tradimenti di mandato: chi dovrebbe occuparsi di mediare tra Scienza, Politica e Società non è (più) in grado di farlo senza sprechi (di risorse materiali e umane). [Occorre rifondare i corpi intermedi, tramite un mix di sovranità responsabile e cittadinanza attiva (basta su comunità locali)];

4- Falsa rappresentazione e falsa rappresentanza: la lettura scientifica e tecnica del mondo dimostra scarsa adattabilità alle dinamiche emergenti, producendo errori di rappresentazione o “invisibilità palesi”. [Occorre esercitare (nuovamente) il diritto all’ascolto, ricostruendo fiducia, generosità e pazienza, caratteristiche dei sistemi sociali complessi].

Certamente le ICT (Information Comunication Technologies, o TIC, Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione) contribuiscono (come ricorda anche il citato Rapporto ONU) a rendere più riconoscibile questo cambiamento potenziale, a farci intravedere che le cose dovrebbero cambiare per ragioni più evidenti della semplicistica visione progressista (ancora vincolata alle economie politiche mondiali). Il cambiamento diviene la strada più vicina al senso comune e le visioni idealtipiche cominciano a perdere terreno e a lasciare spazio a nuove strategie emergenti.


Come esempio semplificativo di questo scostamento tra paradigmi in dismissione e strategie emergenti, richiamo qui la questione aperta dalla sharing culture (dalla condivisione di beni e idee, alla collaborazione per la realizzazione di beni comuni). Essa ha mostrato come, attraverso le ‘lenti’ di un apparato normativo ancora basato sulla separatezza tra bene privato e bene pubblico, non si possa ancora rappresentare adeguatamente il bene comune, nel quale il valore si svincola dalla propria ontologia più tradizionale (la proprietà). Per alcuni questi problemi di rappresentazione possono essere ridotti alla pura questione ‘normativa’, per la quale le azioni si possono suddividere in legali o illegali (per cui Uber è illegale e il monopolio dei Taxi no, ad esempio). Per altri invece le medesime costituiscono la premessa di una necessaria ricostruzione degli strumenti di lettura (e creazione) della realtà sociale che ci circonda.

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